ARTICOLI UNO
ARTICOLI DI DOMENICO BISIO PUBBLICATI SUL MENSILE
L'INCHIOSTRO FRESCO
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APRILE 2016
QUELLA FASCINA DELL'ULIVO
La Domenica delle Palme a Fresonara non lavorava nessuno. Alle undici, tutti, uomini a sinistra e donne a destra, erano in chiesa per la Messa Grande. Non lavorava nessuno… tranne noi chierichetti, che quel giorno, anzi, facevamo lo straordinario. Appena finito il Vespro, divisi in squadre, ciascuno a cavallo della propria bicicletta, portavamo casa per casa il ramoscello d’ulivo benedetto. I più svegli per le vie centrali, i più imbranati nei vicoli, non si doveva saltare nemmeno una porta. Ne andava della propria reputazione. Il giorno dopo la famiglia dimenticata si sarebbe lamentata con il parroco e ai suoi rimproveri sarebbero seguiti gli sberleffi degli altri gruppi. Sapevamo a memoria i cortili, i cani che abbaiavano, le mani dei padroni che aprivano il cancello e il sorriso col quale le mogli avrebbero contraccambiato il nostro servizio porta a porta. Certo non tutti erano generosi, ma, insomma, alla fine della giornata la fatica era quasi sempre ben remunerata. Poi, però, c’erano i cascinali. E a portare il ramo benedetto per quelle aie sparse nella piana dell’Orba, ci voleva gente che sapesse far galoppare la bicicletta scansando buche, sassi e galline specializzate nell’attraversare la strada quando ormai era impossibile schivarle. A Rino, due anni, venti chili e dieci centimetri più di me, il compito di traslocare sul manubrio la santa fascina. A me la santa missione di riuscire a stargli a ruota con imperturbabile stoicismo. A mano a mano che il fastello calava, aumentava il volume delle nostre tasche. Così, sulla via del ritorno, decidemmo di fermarci. Le caramelle resistevano, ma le pastine secche fatte a mano si stavano triturando ad ogni pedalata. La sponda del Bedale andava benissimo, anche perché, quando la bocca era piena e la saliva non riusciva più a insaponare il bolo, un sorsetto di acqua aiutava la deglutizione. Mica avevamo tempo a sapere se quella della roggia fosse acqua potabile. Rino ed io non avevamo a casa l’acqua potabile. Il fresco liquido che serviva a friggere le due bustine di idrolitina arrivava dal secchio del pozzo... Più tardi anche il corrispettivo del parroco fu all’altezza della nostra soddisfazione. Domani il negozio della liquirizia avrebbe fatto affari d’oro.
MARZO 2016
LA FURBIZIA IN PRIMA LINEA: NOI IMBOSCATI
Nella seduta del 22 Ottobre 1744 i Sindaci fanno sapere che il Governatore richiede un soldato al posto del disertore Bartolomeo Maglietto e un sovrannumerario. Sono nominati Carl’Antonio Colombo e Giuseppe Maria Carlevari. Il 3 Gennaio 1745 risulta, però, che il Colombo si è reso renitente. S’impone una nuova scelta: questa volta tocca a Francesco Maglietto, fratello del disertore Bartolomeo. Il 4 Marzo 1745 i Sindaci fanno sapere che Bartolomeo Maglietto ha riportato la grazia di S.S.R.M., è stato liberato ed è rientrato nel reggimento. Allora si dispone di appellarsi per far tornare il Carlevari, in quanto nel contingente sovrannumerario risulta fornito un uomo in più del dovuto. Il 28 Maggio 1745 è richiesto un altro soldato. Tocca a Giuseppe Colombo, che però ha soltanto sedici anni e viene scartato con istanza di una nuova nomina. Il Consiglio ricorre facendo presente che sono al servizio di S.M. già quattro soldati per il reggimento, due nella riserva e Pietro Giora nel Sovrannumerario, concludendo di non più molestare detta Comunità per tal’affare. L’11 Luglio 1746 ai Sindaci pervengono tre ordini del Governatore per rimpiazzare Giuseppe Giavino, Pio Giuseppe Colombo, Giuseppe Maria Carlevari, Bartolomeo Maglietto, Carl’Antonio Colombo, Pietro Giora; più due uomini per la quota addossata nel 1744 e uno per la nuova leva in rinforzo della Compagnia di Riserva. Il Consiglio fa ricorso chiedendo l’indulto per i disertori Giavino, Carlevari, Maglietto, Colombo e Giora e quindi il loro reintegro nei rispettivi reggimenti. Al posto di Pio Giuseppe Colombo passato ad altra vita e per le nuove richieste nominano Carlo Colombo, Pietro Giovanni Gamalerio e Marc’Antonio Colombo. Il 17 Marzo 1747 ci sono altre due richieste… e naturalmente il Consiglio Comunale si appella. Il 5 Agosto altra domanda per la nomina di due reclute, di cui una per rimpiazzare Carlo Colombo, morto. E così di seguito…
P.S. È verosimile ritenere che Carlo Colombo possa essere rimasto ucciso nel corso della storica battaglia dell’Assietta, vinta dai Piemontesi contro gli invasori francesi il 19 Luglio 1747. La Comunità di Fresonara riconosceva il servizio militare con sgravi alle imposte per i famigliari. Ma il paese, oltre al tributo di uomini, dovette ospitare le truppe di passaggio dell’esercito piemontese e sopportare anche l’invasione dei francesi e degli spagnoli nel 1745 e 1746, con i conseguenti danni per i quali furono richieste inutili suppliche al Sovrano, che non ottennero risposta di sorta.
IL VERDE PATRIARCA DI FRESONARA
Era da qualche decennio che il gelso di Fresonara studiava per diventare patriarca verde ed alla prima sessione di esami ha superato brillantemente le verifiche relative alla Determinazione del Settore Foreste n. 3832 del 28/12/2015, attraverso le quali la Regione Piemonte, in applicazione della legge nazionale 10/2013, ha approvato il nuovo elenco degli alberi monumentali. Tra i criteri di monumentalità: età, dimensione, forma, portamento e architettura vegetale. Come in un concorso di miss la Commissione dell’Istituto per le Piante da Legno e l'Ambiente (IPLA), ne ha misurato l’altezza e le circonferenze nei punti che contano. Così è risultato avere una silhouette invidiabile: 280 cm di giro vita e 9,5 metri di altezza, cioè il più alto gelso monumentale in tutta la regione. E l’età? Ma cosa dite! Ad una signora pianta non si chiede l’età.
FEBBRAIO 2016
GLI IMBOSCATI (Prima puntata)
Per gentile concessione dell’Autore, Paolo Masini, appassionato ricercatore di storia locale, rivisitiamo, dal suo libro “Fresonara 1742 -1751” alcune delibere prese dal Consiglio della Comunità di Fresonara riguardanti la nomina di giovani per il servizio militare. (In quegli anni il Regno Sardo, alleato con gli austriaci, era in armi contro i francesi). Leggendo tra le righe non emerge molta simpatia per tale prestazione da parte dei Fresonaresi, certo non desiderosi di servire una patria che a volte appare ostile e sempre molto lontana. Pure l'Amministrazione Comunale non è molto convinta di eseguire le richieste che arrivano da S.E. il Governatore della Provincia. A volte, forse volutamente, il Consiglio manda cittadini non idonei; a volte con ricorsi e suppliche cerca di evitare il servizio ad altri. La scelta dei futuri soldati viene fatta dal Consiglio della Comunità pescando tra le famiglie più numerose per non arrecare troppo danno, considerando che le braccia e il lavoro dei giovani erano una delle principali risorse. Ad ogni richiesta da parte del Governatore, seguiva una delibera di nomina del reclutato, al quale veniva notificato il precetto. Le vicende degli arruolamenti e le relative diserzioni hanno le sequenze di un film tragi-comico. Ecco alcuni esempi. L’anno 1742 Giovanni Bordino diserta. Il Consiglio obbliga il figlio, Giò Batta, a presentarsi in caserma al posto del padre. Ma il 21 ottobre dello stesso anno viene richiesto un altro soldato, perché il Bordino non ha i requisiti, per cui viene nominato Pio Giuseppe Colombo. L’11 Giugno 1744 è reclutato anche Gaspare Giora. E naturalmente sette giorni dopo si rifà un’altra nomina, perché, guarda caso, Gaspare è piccolo di statura. In sostituzione si manda al fronte Giuseppe Penovo, che… non ha i requisiti, per cui è rimandato a casa. Al sostituto, Piero Giora, viene citata la pena di anni due di catena in caso di mancata presentazione. Ma l’esercito vuole anche due uomini sovrannumerari. Si scelgono Carlo Carlevari e Bartolomeo Maglietto. Ma il Carlevari è rifiutato come inabile e al suo posto è nominato Filippo Bordino, che non si fa trovare in casa. Al posto del renitente viene nominato Giò Maria Valacco, il quale, quattro giorni dopo si rivela anch’egli renitente. A pareggio dei conti si nomina come soldato sovrannumerario Dioniggi Bocca.
DICEMBRE 2015
CADUTI FRESONARESI DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
Fresonara li ha ricordati tutti, quel soleggiato freddo 1° novembre. A dire il vero non li aveva mai dimenticati. Ma la scusa di avere continui impegni dava il permesso di rimandare di anno in anno il dovere di offrire, per qualche minuto, il nostro cuore alle 19 vittime della Prima Guerra Mondiale riportate sulla consunta lapide del Monumento ai Caduti. Certamente non saranno stati tutti eroi. Probabilmente avranno avuto paura quando per l’ultima volta udirono l’ordine perentorio degli ufficiali intimare di uscire dalla trincea, per lanciarsi, forse, in un ennesimo attacco suicida. Ma proprio per questa loro fragile umanità è nostro dovere non dimenticarne il sacrificio. Troppo piccoli per poter modificare quella Grande Storia che per compiersi ha dovuto e voluto passare anche attraverso il loro corpo. Nella nostra ricerca li abbiamo trovati riversi sull’Isonzo, sul Grappa, sul Cencio, sul San Michele… Li abbiamo sentiti agonizzare negli ospedali da campo. Abbiamo visto le lacrime delle loro madri, dei figli, delle mogli. Abbiamo sentito l’urlo strozzato dei padri e dei fratelli. Ecco perché bisognava gridare il loro nome. Nella tragedia hanno avuto la consolazione di poter essere rimpianti come uomini, e non come numeri. Quell’esercito che il 24 maggio marciava per raggiungere la frontiera aveva il fucile in spalla e un nome nel petto.
Borsano Giovanni di Giacomo - capitano di complemento 38° reggimento fanteria nato il 5 ottobre 1883 a Fresonara morto il 12 novembre 1915 sul medio Isonzo per ferite riportate in combattimento. Decorato di medaglia d’argento al valor militare.
Borsano Cesare Andrea di Domenico - tenente in servizio attivo 2° reggimento alpini nato il 17 maggio 1895 a Fresonara morto il 5 luglio 1917 nella 47ª sezione sanità per ferite riportate in combattimento. decorato di medaglia di bronzo al valor militare.
Gamaleri Enrico di Augusto - tenente di complemento 43° reggimento fanteria nato il 18 marzo 1895 a Fresonara morto il 25 maggio 1917 sul Monte Santo per ferite riportate in combattimento. Decorato con medaglia d’argento al valor militare.
Gamaleri Angelo Pio di Nicolò - sergente allievo ufficiale 1° reggimento artiglieria da fortezza, nato il 16 dicembre 1889 a Novi Ligure morto il 7 novembre 1917 a Rovigo per malattia.
Barisone Carlo di Giovanni - soldato 1° reggimento fanteria nato il 31 agosto 1889 a Fresonara morto il 9 dicembre 1918 nell’ospedale da campo n.013 per malattia.
Barisone Domenico di Giovanni Battista - soldato 155° reggimento fanteria nato il 10 luglio 1885 a Fresonara morto il 15 ottobre 1915 sul monte San Michele per ferite riportate in combattimento (sepolto a Redipuglia sacrario militare).
Bocca Giuseppe di Pietro - soldato 160° reggimento fanteria nato il 13 marzo 1895 a Fresonara disperso il 20 maggio 1917 sul Monte Vodice in combattimento.
Bricola Lorenzo di Luigi - soldato 38° reggimento fanteria nato il 29 aprile 1894 a Fresonara morto il 17 aprile 1917 nella 7ª sezione di sanità per ferite riportate in combattimento (sepolto a Oslavia sacrario militare).
Castellari Carlo di Vincenzo - soldato 6° reggimento bersaglieri nato il 27 giugno 1891 a Castel San Pietro dell’Emilia morto il 29 maggio 1917 sul Monte Vodice per ferite riportate in combattimento.
Ferrarese Giovanni Battista di Domenico - soldato 155° reggimento fanteria nato il 18dicembre 1888 a Fresonara morto il 19 ottobre 1915 sul Monte San Michele per ferite riportate in combattimento.
Ferrarese Oreste di Giuseppe - soldato 138° reggimento fanteria nato il 13 dicembre 1897 a Fresonara morto il 23 febbraio 1918 sul Monte Grappa per ferite riportate in combattimento (forse sepolto a Bassano del Grappa sacrario).
Ferrari Antonio di Giuseppe - soldato 78° reggimento fanteria nato l’11 luglio 1889 a Fresonara morto il 4 settembre 1917 sul campo per ferite riportate in combattimento.
Giavino Alessandro di Annunziato - soldato 2ª compagnia di sanità nato l’8 ottobre 1881 a Fresonara morto il 27 maggio 1917 sul medio Isonzo per ferite riportate in combattimento.
Giracca Giuseppe di Giovanni Battista - soldato 139° reggimento fanteria nato il 7 marzo 1886 a Fresonara morto il 10 agosto 1918 nell’ospedale da campo n. 085 per malattia.
Lume Giovanni Battista di Giuseppe - soldato 251ª compagnia mitraglieri Fiat nato il 14 settembre 1895 a Fresonara morto il 15 giugno 1918 sul Montello per ferite riportate in combattimento (sepolto a Norvesa della Battaglia – sacrario Montello).
Lume Giuseppe di Clemente - soldato XXIII reparto d’assalto nato il 16 giugno 1897 a Fresonara disperso il 6 giugno 1917 sul medio Isonzo in combattimento.
Massarioli Pietro di Antonio - soldato 23° reggimento fanteria nato il 14 agosto 1899 a Fresonara disperso il 15 giugno 1918 sul Monte Solarolo in combattimento.
Sulla lapide ne risulta uno, ma negli elenchi dei caduti risultano due fresonaresi con lo stesso nome e cognome:
1 - Repetto Antonio di Stefano - soldato 132° reggimento fanteria nato il 3 luglio 1895 a Fresonara morto il 3 novembre 1915 sul Monte San Michele per ferite riportate in combattimento.
2 - Repetto Antonio di Giuseppe - soldato 38° reggimento fanteria nato il 7 ottobre 1887 a Fresonara morto il 27 giugno 1915 sul Monte Sabotino per ferite riportate in combattimento.
Verde Alessandro di Giuseppe - soldato 3° reggimento artiglieria da fortezza nato il 1° settembre 1894 a Fresonara morto il 25 febbraio 1916 sul Monte Cengio in seguito a caduta di valanga (sepolto a Pocol sacrario militare).
Non segnato sulla lapide, ma riportato negli elenchi dei caduti, risulta anche il fresonarese:
Ferrari Battista di Pio - soldato 32° reggimento artiglieria da campagna nato il 5 gennaio 1895 a Fresonara morto il 14 novembre 1917 sul Piave per ferite riportate in combattimento.
Infine vogliamo anche ricordare un maestro elementare di Alluvioni Cambiò che, prima di partire per la guerra, insegnava a Fresonara:
Corradi Ettore di Pietro - sottotenente di complemento 37° reggimento fanteria nato il 15 maggio 1890 ad Alluvioni Cambiò morto il 15 maggio 1917 nell’ambulanza chirurgica d’armata n. 1 per ferite riportate in combattimento sulle alture di San Marco.
Cento anni dopo la Canzone del Piave porta ancora, insieme agli altri 600.000, anche i nomi dei Caduti fresonaresi. Ma l’Inno d’Italia cantato dagli alunni della Scuola Primaria quel soleggiato freddo 1° Novembre sia la speranza di non dover più riscrivere altre lapidi.
NOVEMBRE 2015
QUANDO IL ’68 INIZIÒ NEL ‘65
Quell’inverno muore, nel tramonto di una fredda giornata di neve, Don Giuseppe Contardi. Severo prete figlio del suo tempo, fu parroco a Fresonara dal 1929 al 1965. Con lui la giornata podistica di un chierichetto iniziava alle 7:30 con la Messa mattutina. Ad alta velocità bisognava quindi raggiungere la scuola prima che il maestro si infuriasse. Pranzo fast food per arrivare al catechismo, onde ripartire a gambe levate per ritornare alla scuola pomeridiana. Nonostante l’agenda stracolma di impegni, trovavamo il tempo per essere bambini felici nel prenderci a botte per eleggere il democratico capo della banda di Montecaprato. Quell’inverno il nostro predeterminato mondo finì. Ci accorgemmo che si poteva contestare, che l’aggregazione spontanea tra maschi e femmine era fattibile nonostante gli antichi pregiudizi. Assistemmo a forme di ribellione da parte di tutte le generazioni senza che vi fosse stato alcun atto di preparazione o di coordinamento. Le donne anziane si tolsero le calze nere, i giovani abbandonarono il paese per cercare fortuna in città. Sull’onda dei Beatles cominciammo a farci crescere i capelli. Nel maggio fresonarese nacque la prima critica al passato in nome di una modernità che consideravamo più libera e più giusta. La nostra forte contestazione era quella di fermarci a parlare sugli scalini della chiesa, senza entrare. Non volevamo più il cortile della canonica, ma lo spelacchiato campo sportivo in Strada Giustizia. E le maglie non erano più quelle tarlate del glorioso Torino, ma quelle della Juventus, più di classe per la nuova generazione di tifosi che non aveva vissuto l’epopea di Coppi e Bartali. La tecnologia si impadroniva delle campagne, dove gli antichi riferimenti locali venivano superati da attrezzature bisognose di spazi sempre più ampi… Poi venne il Sessantotto! Chi credeva che avrebbe portato un mondo utopicamente migliore e chi riteneva che avrebbe distrutto l’antica stabile moralità. Erano indietro di tre anni rispetto a noi di Fresonara.
OTTOBRE 2015
IL MORIONE DI FRESONARA: PIANTA STORICA
Solitario, a margine dell’incrocio di sei strade, sul fianco dell'antico camminamento che conduceva ai bastioni retti a difesa del castello, si erge maestoso il secolare gelso, da sempre simbolo del Rione Piazza Vecchia. Fu messo a dimora negli anni in cui la vendita del prodotto dei bachi da seta era la prima risorsa dell’anno per pagare i debiti contratti in inverno dalle povere famiglie contadine. Le sue foglie sono state, a cavallo di due secoli, cibo per le larve che producevano la fibra dalla quale si ricavava il prezioso tessuto. Sotto la sua ombra gli anziani si godevano il fresco nelle ore di calura estiva, ritornando con la memoria agli antichi affanni e alla Storia di passati costumi, mentre qualche piccolo ciclista zigzagava tra dialetti che non erano più suoi. D’inverno i rami, anche se spogli, proteggevano dalla neve la capanna del Presepio a grandezza naturale. L’affetto che i Fresonaresi provano per questo gigantesco albero, si è dimostrato chiaramente una sera del settembre 2004, quando una parte del tronco si staccò dal resto e, pur rimanendo attaccata nel fianco basso del fusto in piedi, si rovesciò a terra. In pochi minuti la notizia si diffuse e tutto il paese si riversò, sbigottito e sgomento, ai suoi piedi come al capezzale di un parente malato. Nessuno ritornò alla propria casa sino a quando il Sindaco non ebbe rassicurato i presenti, garantendo che si sarebbe fatto il possibile per salvare la pianta. Ricongiunta la parte caduta al tronco rimasto in piedi e sigillato il tutto con anelli di ferro che abbracciano ancora oggi l’albero, dalla primavera successiva il gelso, capitozzato in precedenza per sicurezza, ritrovò presto il suo naturale slancio vitale, testimoniato ancor oggi dalla sua vastissima chioma. Proprio in questi giorni il personale incaricato dall'I.P.L.A. (Istituto per le Piante da Legno e l’Ambiente) ha esaminato in loco le caratteristiche dell'albero, compilando una scheda tecnica con i dati relativi ai vari accertamenti. Tutta Fresonara spera che il gelso abbia le carte in regola per superare gli esami e ottenere la classificazione di Albero Monumentale.
AGOSTO 2015
LE DUE MASCHERE DI FRESONARA
Si arriva passando da tutti i punti cardinali. Varcato il confine, il cartello avvisa che gli autoctoni la chiamano Fërsnèra. E rende altresì noto che si sta transitando nello storico territorio di Frixinaria, uno dei 18 toponimi che hanno contraddistinto, nei suoi 1200 anni di vita, l’antica curtis prima del suo nome definitivo: Fresonara. A destra di San Glicerio, un pannello fa presente al viandante che oltre la Chiesa, il Castello, le Sagre e lo Sport, nel paese dei bacecchi c’è il Teatro. Nessun altro Comune dei dintorni espone i simboli delle due maschere. Fresonara, invece, il posto dove il Dramma e la Commedia si consumano sulle assi di un palco, ce l’ha. Si chiama Teatro Comunale, ma è solo un riassunto. In realtà è la Casa di chi vuole fare teatro, sia stando dalla parte di chi recita, sia stando seduto in sala. A Teatro palcoscenico e platea vivono in simbiosi: entrambi creano l’ambiente adatto alla crescita dell’altro. Antica memoria quella del Teatro a Fresonara. Quando alcuni la sedia se la portavano da casa e i più temerari si inerpicavano sui pioli della scala di legno poggiata al muro. Tradizione interrotta soltanto negli anni in cui nei paesi si chiusero le S.M.S., i cortili dei preti e le porte di numerose abitazioni per cercare lavoro e fortuna in città. Perché proprio nel momento in cui nasce la meccanizzazione della campagna, nessuno vuol più fare il contadino. Un ’68 che è durato 35 anni. Poi, nel 2003 la riapertura del nuovo Teatro, incisa nel sangue del Sindaco di allora, che è lo stesso di adesso. L’8 settembre il Comunale compirà dodici dozzine di mesi. E in 144 lune ha visto svolgersi al suo interno 210 manifestazioni (tra cui nove Stagioni Teatrali per 40 Compagnie diverse). La media l’abbiamo fatta noi: una ogni tre settimane. Nonostante i corvi, sembra che quel sangue non sia stato versato invano.
LUGLIO 2015
ESTATE: COMPITI DELLE VACANZE
Estate uguale vacanze. Ovvero: il mare sta alla montagna come il costume da bagno sta allo zaino. Ci sta anche la signora Jole. Che ha scelto il mare: Diano Marina. Per lei e per Luigino. E quest’anno spenderà 65 euro per lei e 35 per Luigino al giorno. Se la signora Jole si fermerà a Diano Marina per due settimane, si domanda: perché la signora Jole è andata al mare con Luigino? Risposta: perché il marito della signora Jole avrà le ferie proprio quando lei dovrà ritornare a lavorare. E Luigino ha bisogno di iodio. Subito. Ma forse la signora Jole è sola, separata dal marito, e piuttosto che lasciare Luigino alla (ex) suocera, si taglierebbe le gambe. Proprio quelle che tutte le settimane si fa rassodare dal massaggiatore. Che è anche un bell’uomo. E poi lo ha sentenziato il giudice: Luigino andrà al mare con la mamma! Ma Luigino non è soltanto un bambino. È anche uno schermo difensivo. Perché con la scusa che il piccolo deve fare merenda, la signora Jole potrà allontanarsi dalle insinuanti insistenze di quell’antipatico signore stempiato, con la pancetta. Con il costume modello anni cinquanta. Che non perde occasione per far capire che è il solito cretino che vorrebbe portare a letto la signora Jole. Ma la signora Jole non vuole avventure con la pancetta. Lei sogna il suo Giulio. Tutto un altro fisico. Lui le massaggia i glutei, lei lo messaggia. Usando gli stessi sottintesi tattici del signore col costume del 1955. Luigino ha già fatto i compiti. Adesso gioca sulla spiaggia. Da solo. Perché il papà, che l’anno scorso lo aiutava a costruire la fortezza per imprigionare le onde del mare, non c’è. Ogni tanto guarda la mamma. La controlla continuamente. Sorride nonostante il tribunale. E aspetta di essere ricambiato. Anche la mamma sorride. Si domanda: Luigino sorride alla mamma o sorride perché fra due settimane rivedrà finalmente il papà? E la mamma sorride a Luigino o alla risposta al suo sms?
GIUGNO 2015
L’ANTICO LIBRO DELLA STORIA DI FRESONARA
È come l’Araba Fenice: che ci sia lo dicono tutti, dove sia nessuno lo sa. Scritta dal cav. Pietro Vernetti intorno alla fine del 1800 e rilegata sul libro dei misteri, la Storia del Comune di Fresonara ha errato più di Don Chisciotte, scomparendo definitivamente proprio quando la locale Associazione Culturale Lo Scagno si preoccupa di riportare alla luce e divulgare le vicende, le tradizioni e la cultura del paese. Stanchi per l’età ormai pensionabile nonostante la Fornero, non riusciamo mai a raggiungere l’agognata massima soglia della nostra meraviglia. È sempre impossibile affermare con certezza che la crisi di predisposizione all’intelligenza dell’antico popolo dei bacecchi sia finita e stia cominciando la fase di ricrescita. Si hanno nelle mani documenti storici rarissimi, se non unici, e si riesce a perderne le tracce con la stessa facilità con cui spariscono le impronte sulla neve al sole. E così, tolte le copie delle fotocopie di una parziale ricostruzione della storia di Fresonara, pubblicata qualche anno fa, altro non si ha per incuria e negligenza. Ovvero, di ciò ne hanno approfittato i marpioni per rastrellare quegli importanti documenti, guardandosi poi bene dal riportarne il contenuto alla memoria collettiva. Parafrasando, ci sorgono spontanee le domande: perché volete tenere nascosti nei tiretti del vostro solaio quei preziosi manoscritti? Non sarebbe vostro dovere consegnarli a qualcuno che li renda pubblici, così da far in modo che gli amanti della storia locale possano conoscere le antiche vicende del paese? Spesso ci siamo lamentati di aver trovato in vendita straordinari documenti fresonaresi su Ebay, ma forse meglio lì che tra le ragnatele della vostra avarizia culturale. Per lo meno chi desidera renderli pubblici li può acquistare e poi divulgarli. Nei vostri segreti cassetti gli unici beneficiari sono i topi.
MAGGIO 2015
ANTICHE MISURE FRESONARESI
Nel Regno di Sardegna il Sistema Metrico Decimale fu introdotto da Carlo Alberto nel 1845. Nel 1861 Re Vittorio Emanuele II decreta la nuova Legge sui Pesi e Misure valida per tutto il Regno d’Italia. Ma nel mondo contadino le misure restavano quelle tramandate dagli avi. I campi erano misurati a staia, ciascuna di 589,5 mq, per cui circa 17 staia formavano un ha. Sottomultiplo dello staio era la tavola, 18 volte più piccola, cioè poco meno di 33 mq. A sua volta essa veniva divisa in 12 piedi (2,72 mq). Un piede equivaleva a 12 once e 1 oncia valeva 12 punti formati da 12 atomi ciascuno. Ma a Fresonara si adoperava anche la Moggia grande, equivalente a 47,15 are, cioè 4715 mq e quindi a 8 staia. Si usava pure la Giornata piemontese, che valeva 38,10 are, cioè 3810 mq. L'origine del nome derivava dalla corrispondenza con la quantità di terreno arabile mediamente con una coppia di buoi in una giornata, praticamente un quadrato di 62 m di lato. L’oncia, oltre che unità di superficie, era anche una misura di peso. Ad once si comprava il seme-bachi per l’allevamento dei bigäti atti a produrre la seta. Un’oncia equivaleva a 30 grammi di uova, che potevano raggiungere anche il numero di 50.000 e oltre. C’erano poi grandezze delle quali soltanto gli iniziati ne comprendevano il valore: il mes di (mezzo dito = 8 mm circa), in dì (17 mm), deuo dëja (35 mm), trai dëja ( 6 cm), quätar dëja (8 cm), in smëss (pugno chiuso con pollice alzato = 14-15 cm), in pärm (un palmo =22 cm) ina uangä (una vangata = 30 cm), ina sningiä (una ginocchiata = 55 cm), in óm (una persona = 170 cm), in trabuch (trabucco, canna graduata di circa 3 metri). Lo staio era anche un contenitore rotondo di legno con asta per livellare il volume del grano o del mais. In base al peso specifico: 8 staia per 13 kg l’uno equivalevano a 1 quintale di frumento; 8 staia per 14 kg l’uno equivalevano a 1 quintale di mais.
APRILE 2015
QUANDO GUGLIELMO MARCONI ERA PRESIDENTE DELLA SOCIETÀ DI MUTUO SOCCORSO DI FRESONARA
Sei gennaio 1906. A Fresonara, un gruppo di cittadini, valendosi del diritto d’associazione concesso dallo Statuto del Regno, costituisce un sodalizio sotto il nome di Società Guglielmo Marconi per il Mutuo Soccorso. Passano due anni e il 19 febbraio del 1908 il Vice Presidente, dopo aver dichiarato aperta la seduta, comunica di aver inviato a Marconi una lettera a nome dell’Ente. Di fronte allo stupore dei presenti legge la risposta, da Londra, dell’illustre scienziato: “Egregio Signor V. Presidente, […] gradirei se la S. V. volesse rendersi interprete presso i soci di codesta Società di M. S. dei miei sinceri ringraziamenti delle lusinghiere espressioni rivoltemi e nel far voti per la prosperità della società stessa la prego di gradire i sensi della mia più alta stima e considerazione. Dev.mo G. Marconi”. L’Assemblea è unanime: bisogna nominare Marconi Presidente onorario del sodalizio, non essendo vivente al mondo persona più illustre di lui. E nel verbale del 28 maggio 1908 troviamo la lettera con la quale lo scienziato si dichiara assai lieto di accettare tale carica: “Gent. sig. Presidente, […] la pregherei di comunicare ai soci di codesto sodalizio dei miei ringraziamenti dell’onore che hanno voluto darmi nel proclamarmi Presidente onorario, onore che sono assai lieto di accettare. Colgo la presente occasione per rinnovarle gli atti della mia massima stima e considerazione”. Uno scroscio di applausi fa eco nella sala e si accetta la proposta di ricamare in oro sul nastro della bandiera «Presidente onorario G.mo Marconi». Alle grida di evviva viene tolta la seduta lasciando su tutti i volti un’espressione di contento. Finalmente svelata la verità: Marconi deve la sua eterna fama non per avere inventato la radio, ma per essere stato il Presidente Onorario della S.M.S. di Fresonara!
GIUGNO 2014
G.T.S. DA TRENT’ANNI UN MARCHIO DI QUALITÀ
Il Gruppo Teatro Scuola di Fresonara compie trent’anni. Dal 1984 ad oggi ha continuato la sua attività senza mai una sola interruzione. Il merito è dei cittadini più giovani del paese: gli alunni della Scuola Primaria. I quali, con gli introiti delle loro rappresentazioni, contribuiscono, dopo il Comune, ma molto prima del Ministero di competenza, a far sì che nelle loro aule il materiale didattico e di consumo non manchi mai. Senza contare gli incassi devoluti in beneficenza. I dati che riportiamo danno un’idea dell’intensa attività svolta nei 30 anni di teatro: 7 coreografie, 16 teatri tra cui Genova, Bra, Alessandria, Novi Ligure, 28 opere teatrali inedite portate in scena per un totale di 104 repliche, 35 scenografie create da Elisabetta Siri, 200 personaggi, 255 costumi originali. Del G.T.S. hanno fatto parte alunni che oggi si fanno apprezzare, non soltanto in Italia, per le loro qualità artistiche: Daniele Lince regista cinematografico, Marcello Borsano batterista, Matteo Cerboncini chitarrista, Toni Mangano disegnatore grafico, attore della Compagnia Il Carro di Tespi. Grande festa è stata venerdì 23 e sabato 24 maggio, quando hanno portato in scena, al Teatro Comunale di Fresonara, le due rappresentazioni: Pro-getti di pro-fumo e Furto a teatro. Tra i successi più importanti al primo posto certamente Il Bosco dei Rossi Capelli al Teatro Giacometti di Novi Ligure con il Mihai Ballet School. Furto a teatro, riproposto quest’anno, fu portato in scena a Bra dall’unico gruppo scolastico della provincia di Alessandria invitato a recitare in occasione della Fiera del libro per ragazzi. Poi Che inferno in casa Dante addirittura in versione dialettale, che con due repliche al Teatro Giacometti portò oltre 500 spettatori. La prima recita fu nella palestrina della scuola. Anno 1984-‘85. Lo scopo era quello di incassare qualche spicciolo per comprare materiale per la matematica e le scienze. Ma la palestra stava stretta al regista e soprattutto alla scenografa, così vennero i successi dell’Auditorium di Genova, di Alessandria con l’iscrizione al Forum del Decentramento Culturale, la Tre giorni di Valenza, gli stand di Acqui… e finalmente il Comunale di Fresonara, che ha fatto del Gruppo Teatro Scuola una Compagnia stabile. Conosciuto non soltanto negli ambienti scolastici, il G.T.S. è sinonimo di professionalità, competenza, costante applicazione. Sul palco recitano i bambini, ma le battute sono frecce per far meditare gli adulti. Al termine dello spettacolo a tutti i bambini-attori è stata consegnata la medaglia del trentesimo anniversario, festeggiato con un rinfresco veramente degno di tale nome, offerto dai genitori. Ma la cerimonia ufficiale sarà ad ottobre, in occasione del Compleanno di Fresonara, quando sul palco saliranno gli ex attori del G.T.S. per riportare alla memoria gli antichi copioni e ricordare anche i 100 anni dalla fondazione dell’edificio scolastico, intitolato ad Edmondo De Amicis. E l’unità di intenti col sindaco Massimo Bisio, rieletto per la quinta volta, garantirà ancora, per un lustro, la necessaria sinergia tra Amministrazione Comunale e Gruppo Teatro Scuola.
APRILE 2014
L’ARTE DELLA GUERRA
Teatro di guerra: il gazebo. Strategia vincente: attestarsi per primi all’ombra del campo di battaglia. Il vantaggio è assicurato! Chi giunge in ritardo, nell’assolato spazio inghiaiato è psicologicamente in difficoltà. Gli abili guerrieri, quindi, fanno in modo di essere ai posti di combattimento appena ingoiato il rancio del mezzodì. Ciò che impedisce al ritardatario di rispondere subito al fuoco è la situazione stessa: i trincerati sono già pronti al tiro incrociato, mentre lui non ha ancora il colpo in canna. Il disegno dei cecchini è tra i più subdoli: se chi arriva è tranquillo, lo si mette in agitazione mentre è ancora in piedi al banco. Bisogna prenderlo di mira subito, costringendolo ad affrettarsi alla difesa, avanzando argomenti che spaziano velocemente in direzioni impreviste, così da non dargli tempo di racimolare una battuta che induca gli astanti ad entrare in empatia con lui. Per avere la certezza del successo lo aggrediscono su ciò di cui non è preparato; per proteggersi difendono ciò che non viene attaccato, proponendo falsi scopi per strisciare negli ineluttabili vuoti di memoria di chi era uscito di casa per bersi un caffè, e non per scardinare schieramenti a testuggine. L’argomento dell’attacco, comunque, è imprevedibile, senza prefazioni. In tal modo il nemico, colpito su più fronti, non potrà preparare adeguatamente nessuna contromossa. Se poi è guerra fredda, allora si delimitano le sedie intorno al tavolo, non si guarda in viso il nemico e discutendo di niente con gli alleati, si fa capire che per l’ultimo arrivato non c’è posto al congresso delle intese. Non si sa mai: soverchiati culturalmente, lo scontro diretto potrebbe rivelarsi un’imboscata proprio per chi la voleva tendere. Dal punto di vista dell’aggredito, se proprio non è una burbetta, può sempre fare in modo di evitare lo scontro. Valutata la disparità a suo svantaggio delle forze in campo, può optare per un altro tavolo, le cui pianificazioni vantaggiose e svantaggiose sono alla portata. Intanto, spiando nell’altro campo di battaglia, imparerà le regole secondo le quali si muovono. Capendone la disposizione, saprà su quali dissertazioni è certa la resa e su quali arrivare a fare prigionieri. Astutamente provocandoli a distanza, conoscerà i punti di maggior forza e gli argomenti le cui difese vacillano, saprà aprirsi varchi in caso di accerchiamento e contrattaccare al momento opportuno, perché la vittoria al bar… può essere predisposta.
MARZO 2014
FRESONARA UNA VOLTA… ERA COME ADESSO
Nel 1960 due fratelli contadini, che erano stati alla Fiera Agricola, raccontarono al nonno di avere visto uno strano attrezzo che si chiamava trattore. Aveva quattro ruote, un tubo per camino e… andava da solo. Non si doveva mungere, fargli il letto con la paglia, dargli da mangiare tutti i giorni. Il nonno rispose che da secoli c’erano le vacche, che avevano sempre fatto egregiamente il proprio lavoro, e di lasciare stare le pericolose modernità. I due fratelli ritornarono alla Fiera e… comprarono il trattore. Non si poteva fermare il progresso, e in quanto a muovere carri, pur una forte coppia di buoi non poteva reggere il paragone con quel macchinario che tirava da solo. Adesso quei due fratelli hanno indossato i panni del nonno. Vedono i giovani con il tablet e vorrebbero far intendere che erano meglio quaderni e lapis della loro epoca. Perché i giovani non sono più quelli di un tempo. Non hanno più voglia di piegare la schiena. Non pagano nemmeno la tessera dell’Associazione. Una volta, invece… Una volta, invece, nacque a Fresonara un sodalizio denominato Società G. Marconi per il Mutuo Soccorso. Vi partecipavano commercianti, operai, agricoltori, tutti mestieri che i giovani di oggi rigettano schifati. Quel 6 gennaio del 1906 lo Statuto dichiarava lo scopo fondamentale: la più schietta e leale fratellanza. Mica come adesso, che ognuno pensa soltanto a se stesso. Ma soprattutto giurava sul mutuo soccorso, vale a dire che i soci, i quali avessero avuto la disavventura di cadere malati, avrebbero ricevuto un sussidio giornaliero ricavato dal pagamento delle quote degli altri iscritti. Mica come adesso, che ognuno pensa soltanto a se stesso… Altri tempi: uno si ammalava e gli associati contribuivano fraternamente al suo sostentamento! Passarono poco più di venti anni e nel 1927 il sodalizio chiuse i battenti. I presenti all’ultima riunione non raggiunsero nemmeno il numero legale. Ma soprattutto era da due anni che nessuno di loro versava la quota annuale! Dunque già 87 anni fa era come adesso: non pagavano la tessera. Ma, allora, da quando cominciano i migliori anni del c’era una volta? Poveri malati! Almeno adesso, con un cellulare si può chiamare l’ambulanza. A quei tempi il medico spesso non lo chiamavano neppure. Soprattutto se il malato era giovane, perché se lo avessero saputo in paese che era cagionevole di salute, non avrebbe più trovato moglie. Nel 2014 due fratelli andarono dal nonno e gli dissero di comprarsi uno smartphone. Il nonno rispose che andava tanto bene il telefono a filo. Nel 2044 i due fratelli indossarono i panni del nonno e…
FEBBRAIO 2014
PERCHÉ SCHOPENHAUER NON È PASSATO DA FRESONARA?
Povero Arturo! Nel senso di Schopenhauer, che passa la vita alla ricerca di tutti i modi possibili per trasformare qualsiasi disputa in una vittoria. Ma muore e i suoi 38 stratagemmi per ribaltare le discussioni vengono pubblicati soltanto postumi nel libro L’Arte di ottenere ragione. Immagino gli affanni nel riflettere sulla storia e sulla teoria della Dialettica per arrivare alla formulazione delle tecniche di disputare allo scopo di prevalere per fas et nefas, cioè a ragione o torto, di contro alla Logica, intesa soltanto alla verità obiettiva. Se avesse frequentato il bar che frequento io, gustato un buon caffè, si sarebbe seduto al tavolo ad aspettare. Prima o poi la discussione sarebbe cominciata. Presi i dovuti appunti, avrebbe scritto il libro in un quarto d’ora, edito ad autore vivente e con il doppio delle pagine. Perché avrebbe certamente percepito che gli stratagemmi erano almeno due volte tanto quelli che il suo genio riteneva. Nel bar che frequento io il sillogismo scientifico, che fonda l’autentica dimostrazione partendo da una premessa vera, non è neanche immaginabile. E se comunque lo fosse, nemmeno chi espone la tesi iniziale avrebbe lo stupido ardire di proporlo. Non c’è soddisfazione ad avere ragione subito. Prima di avere l’ultima parola bisogna almeno dirne anticipatamente qualche migliaio a sproposito, sfiancare l’avversario con argomentazioni acefale e anure, distruggerne la resistenza psicofisica con premesse che chiamarle probabili è come certificare i Lillipuziani, fondarsi su opinioni che assumono credibilità in proporzione alle risate di consenso che le seguono. Le capziose argomentazioni tese ad ingannare l’interlocutore, consentono di disputare su tutto e di confutare ogni risposta indipendentemente dalla verità ed in proporzione inversa alla conoscenza dell’argomento. La degenere dialettica degrada la parola in un vuoto verbalismo, secondo la tecnica della persuasione fine a se stessa. Socrate, che si riteneva investito dal dio ad insegnare agli uomini la virtù della conoscenza, venuto a sapere della situazione, quest’anno non ha pagato nemmeno la tessera da socio: sparito! Altro che politico che deve prendersi cura dell’anima degli uomini! Nel mio bar i politici sono tutti criminali. E la grassa risata generale che ne segue conferma che almeno in quello tutto il locale è d’accordo. Il problema è che della crisi attuale c’è poco da ridere. Fortunato Arturo! Nel senso di Vidal, che giocando nella Juventus, di stratagemmi conosce soltanto quelli per segnare dei gol. Ed è per argomentare di lui che io frequento con piacere il mio bar.
DICEMBRE 2013
BUON NATALE LO STESSO, BAMBINI
La circolare è chiarissima: “In relazione alla fattispecie dei BES, per redarre il PDP, ogni CdC valuti le casistiche BES e affronti la stesura del PDP, scaricando il modello dell’URS con nota 9252/U tenendo presente le LG sui DSA (vedi DM e CM segnati). I componenti del GLI sono a disposizione”. Nove incerte sigle per dimostrare una cosa certa: nelle scuole ci sono bambini con difficoltà di apprendimento. Le famiglie si preoccupano e si rivolgono agli Enti preposti ad individuarne la gravità. I piccoli vengono segnalati allo Stato perché bisognosi di insegnanti di sostegno. E lo Stato cosa fa? Gli insegnanti di sostegno non li manda! Però manda la burocrazia, che esige di compilare venti burocratici fogli che andranno a finire nel burocratico apposito cassetto. Manca la maestra, però ci sono la LIM e i tablet. O meglio, dovrebbero esserci, perché per il momento a Fresonara, oltre la maestra, mancano anche la LIM e i tablet. Ma c’è la burocrazia. Questa volta dentro la busta di plastica che il maestro deve assolutamente avere con sé in caso di evacuazione dell’edificio. Dove dentro c’è anche il burocratico cartello per indicare che gli evacuati sono burocraticamente usciti di scuola. Perché se non alza il cartello verde, come fa quel cretino del maestro a sapere che ormai tutta la sua classe è fuori pericolo? Del resto la burocrazia vuol conoscere il numero dei vivi, dei morti e dei dispersi e con i bambini non c’è mai da fidarsi. L’unica cosa certa è che sicuramente tra le vittime non ci saranno insegnanti di sostegno! Una volta i genitori bussavano. Oggi, per entrare nella scuola devono dare i numeri. Nel senso che devono digitare la password. Con essa accedono al sito, che non è un posto incantevole, ma un luogo virtuale dove scoprono la virtualità scolastica del proprio figlio attraverso i numeri che dà a sua volta il maestro, non nel senso della pazzia, ma dei voti attraverso la verifica, perverso strumento inventato dalla burocrazia per poter dimostrare burocraticamente che il bambino va male a scuola. Ma il bambino ha problemi perché ha difficoltà di apprendimento. È persino stato segnalato! Accidenti, siamo di nuovo daccapo: gli insegnanti di sostegno non ci sono. Meno male, così anch’essi non muoiono durante le evacuazioni. Per Natale, fanciulli, scrivete direttamente voi a Gesù Bambino, che con la password e l’username, il tablet se lo porta a casa la burocrazia. Auguri a tutti!
OTTOBRE - NOVEMBRE 2013
AUGURI, FRESONARA
Nel maggio del 2001 i bambini della Scuola Primaria, guidati dall’insegnante Elisabetta Siri, inviarono una lettera al Sindaco, proponendo che fosse istituita ufficialmente una data in cui festeggiare il Compleanno di Fresonara. Il 6 giugno il Sindaco ricevette i bambini in Comune per discutere sulla questione. Venne scelta la data del 1° Ottobre. I motivi erano storici. Decimo secolo: Fresonara gode del titolo di curtis, col quale si intendeva il complesso dei territori e degli edifici situati intorno alla residenza del signore e sottoposti alla sua autorità, formanti un’organizzazione economica, sociale e giuridica autonoma e autosufficiente. Nell’anno 926, Rodolfo II, Re d’Italia, deve cedere la corona a Ugo di Provenza e ritorna in Borgogna. Lascia in Italia sua figlia Adelaide, che, per interessi di stato, sposa Lotario II, figlio di Ugo. In dote riceve, con altre terre, anche Fresonara. Dopo sventurate vicende, alla morte di Lotario ella sposa in seconde nozze Ottone I, che le riconferma in dote la corte di Fresonara. Adelaide dispone di donare il nostro paese al Monastero del S. Salvatore di Pavia. La decisione è nominata da Ottone II in un diploma datato Capua 1° Ottobre 981. I monaci godettero della donazione testamentaria dal 999 al 1249, quando Fresonara fu venduta, con Basaluzzo, ad Alessandria per 2.800 lire. Stabilire la data di nascita esatta di Fresonara, è impossibile. Molte le tesi, che vanno dai tempi dei Liguri Stazielli, ai Romani, al primo Medioevo. Ma non ci sono documenti. Sta di fatto che dal 2001 vengono organizzate tutti gli anni, ad ottobre, da parte del Comune e dell’Associazione Culturale Lo Scagno, una serie di manifestazioni offerte sempre gratuitamente alla popolazione, che spaziano dalla poesia, al teatro, ai concerti, alla storia locale, allo sport, al folklore, all’astronomia, alla medicina, alla presentazione di libri, alle tavole rotonde. Lo scopo principale de Lo Scagno è quello di riscoprire la cultura, la storia, il dialetto, i valori e le tradizioni del paese. Sull’omonimo giornalino trimestrale vengono riportate le notizie più interessanti riguardanti Fresonara. Per merito delle ricerche effettuate dall’Associazione, dopo 120 anni è stato ritrovato il manoscritto originale del Cav. Pietro Vernetti, concernente la Storia del Comune di Fresonara. Dato alle stampe, il libro è stato distribuito gratuitamente dal Comune a tutte le famiglie fresonaresi.
LUGLIO 2013
I DACITI FRESONARESI
Anno 1742. Nei conti della Comunità di Fresonara sono inseriti gli introiti dovuti a delle specie di concessioni che venivano chiamate daciti. Il 31 dicembre, al suono del tamburo da parte del messo, sulla pubblica piazza, al tramonto, fu bandita l’asta per l'assegnazione dei daciti per l’anno seguente, che sarebbero stati affidati al miglior offerente. E dopo le offerte, i daciti deliberati furono cinque. Prima di tutto quello del Prestino, ossia l’esercizio del fornaio, concesso a Francesco Bocca, il quale promise di bene esercitare il suo impiego nel cuocere il pane, impegnandosi a pagare, a suo tempo debito, il fitto offerto di lire 87, soldi 6 e denari 8 nelle mani del Tesoriere, sotto l’obbligo dei suoi beni. Si fece garante Carl’Andrea Guarco, solidariamente obbligante col Bocca. Il documento è controfirmato da cinque persone, di cui tre illetterate, che tracciano il segno di croce. Segue il dacito del Pedaggio, affidato a Giuseppe Vescovo, per il fitto di 30 lire piemontesi. Il Pedaggere doveva esigere le gabelle da parte dei forestieri che avessero estratto merci dalla terra di Fresonara a proprio vantaggio. Si fece garante Giò Batta Vescovo. E anche questa volta sul documento ci sono più croci che firme. Ma il dacito che incuriosisce di più è quello della Rasparia, deliberato a Paolo Francesco Ferrari per il fitto di lire 28 e spiccioli. A lui spettava il compito di raccogliere il rudo, cioè il letame e gli escrementi degli animali, sulle vie pubbliche e soprattutto davanti al forno. Il profitto nel pulire le strade a vantaggio del Comune, addirittura pagando, stava nel fatto che il rudo serviva come concime per i campi. Giuseppe Pochettino, che vinse la gara per il dacito dell’osteria e della custodia dei Pegni, dovette giurare di vendere il vino a 2 denari in meno per ciascun boccale rispetto al Bosco. L’esercizio di Campanaro fu deliberato a Giuseppe Ferrari, che a sua volta promise, per 33 lire di salario, di suonare i Divini Uffici alle feste, l’Ave Maria mattina e sera, di dare il segno dei defunti e di suonare la campana dei malitempi d’estate. Nel 1744 fu anche assegnata la Bottega del Retaglio. Qual era il compito di Giuseppe Laguzzi che vinse l’asta offrendo 116 lire, 13 soldi e 4 denari piemontesi? Era quello di acquistare all’ingrosso il sale (monopolio dello Stato) in Alessandria e rivenderlo ai fresonaresi per il prezzo di soldi 3 alla libbra.
GIUGNO 2013
I RAGAZZI(NI) DEL '99
Recitano dal 1984. Sono gli alunni della Scuola Primaria di Fresonara. L’unico gruppo teatrale scolastico ad essere stato iscritto, già nel lontano 1997, al Decentramento Culturale della Provincia di Alessandria. Con il loro serio impegno di attori, che dura tutto l’anno, contribuiscono ormai al 100% all’acquisto del materiale didattico. Se il plesso di Fresonara è così rifornito non solo di prodotti di consumo, ma di attrezzature scientifiche ed elettroniche, lo si deve agli incassi ricavati dagli spettacoli, diluiti con lungimiranza nei vari acquisti. Ma i piccoli plessi non fanno notizia, i giornali locali relegano i loro articoli sul Gruppo Teatro Scuola nella rubrica notiziette in breve, e la politica scolastica, per nascondere i propri errori, chiede alle scuole a diventare autonome. Ma se mancano i fondi per la scuola, la domanda la dobbiamo fare noi ai politici: dove li avete messi? Compresi quelli che spetterebbero agli attori del G.T.S., i quali, pur facendo un’attività in connessione con il funzionamento della scuola, inserita nel P.O.F. e quindi sulla carta finanziata dallo Stato, si sono pagati di tasca propria, in questi 29 anni, la SIAE, gli impianti luci e audio, i 100 mq di scenografie, le spese di trasferta e i 300 costumi che, messi in fila, fanno 17 metri lineari di due aule e un corridoio. Domenica 2 giugno si è conclusa la stagione teatrale. Lo spettacolo è stato replicato perché il Teatro Comunale di Fresonara non riusciva a contenere tutte le prenotazioni in una volta sola. Il G.T.S. non porta in scena recitine di fine anno, ma veri spettacoli teatrali, dove le battute, specialmente le più divertenti, fanno meditare gli adulti e dove gli applausi non sono di pura cortesia verso i bambini… Domenica 2 giugno era il 99° spettacolo! Sette mesi di prove, tutte le settimane, durante le quali il regista esige continua applicazione, perché nel teatro tutto sembra immediato, invece tutto è calcolato, provato, messo a punto con grande esattezza. Durante le quali gli alunni con difficoltà particolari trovano l’occasione affinché le loro capacità di espressione e comunicazione superino la suddivisione del sapere in materie. Durante le quali tutti prendono coscienza di sé, del rapporto con gli altri e si appropriano degli strumenti culturali per essere protagonisti creativi e modificatori della realtà.
MAGGIO 2013
LE GUERRE TRA ANTICHI ROMANI E LIGURI BACECCHI
Morì nel 456 a. C. Si chiamava Eschilo e fece comunque in tempo a scrivere che i Liguri Bacecchi erano gente imperterrita. Diodoro Siculo, storico dei tempi di Augusto, dice che le loro donne erano uomini! Ancora adesso: quando c’è da reclamare con gli insegnanti, i mariti mandano in avanscoperta le mogli, le quali, tradendo sotto la ceretta baffi da caporale, non si lasciano scappare l’occasione di saperne più della maestra. E Plutarco insiste nello scrivere che le donne liguro-bacecche erano ammesse in cariche di autorità nel disimpegno delle pubbliche cose e sedevano pur anche giudici nei tribunali. Oggi a Fresonara il tribunale non c’è più, così siedono sugli scranni di Piazza Don Orione, dove la sentenza capitale pende sulla testa degli sventurati che incappano nella punta della loro lingua. Dotto, che non era uno dei sette nani, ma uno storico, conferma che mai tra i popoli antichi ci furono esempi di lotte così ostinate come quelle che sostennero i Liguri Bacecchi contro i Romani. E Florio aggiunge che tra i silvestri pruni vi si doveva adoperare gran fatica per trovare questa forte e veloce stirpe. Ugualmente il concetto vale se al posto dei pruni scriviamo i banchi della chiesa o le sedie del teatro. Il grande Tito Livio giura che il popolo dei liguri bacecchi era nato fatto per conservare le discipline militari anche tra gli intervalli delle grandi guerre. Come dire che, apparentemente finita la pugna della Tendopoli, gli attuali discendenti stanno già affilando le armi per la prossima battaglia delle elezioni comunali. Il più famoso degli storici latini ci informa che i figli appena nati di questo orgoglioso popolo erano immersi nell’acqua fresca dove dalla nascita incominciavano a rinvigorirsi le membra. Peccato che Tacito non ci faccia sapere se tale usanza avesse acuito il corpo, ma ottuso la mente, perché da ciò si spiegherebbero tante cose… Diodoro, dal canto suo, descrive i Liguri Bacecchi magri di corpo ma al sommo veloci e vivaci. In riferimento al primo aggettivo, probabilmente anche le mie radici affondano nella palude di quel popolo. E chiudiamo con Virgilio, che prima di far da guida a Dante, si era interessato dell’inferno fresonarese, affermando che il ligure bacecco è assuefatto a soffrire e sopportare i mali. E le malelingue! Ma l’ultima frase non è originaria del poeta mantovano.
APRILE 2013
I BACECCHI, OVVERO QUELLI CHE... FANNO DIVERSO
Sotto S. Rocco non grida più nessuno.
Bisogna proprio essere bacecchi! Che sarebbero i cittadini di Fresonara negli epiteti dialettali dei paesi circonvicini. I cui abitanti, se così ci chiamano, almeno un motivo l’avranno ben trovato, scavando nella più che millenaria storia di chi, sin dalle origini, prende lo scagno per sedersi per terra. E a dire il vero, è nel codice D797 la traccia embrionale che ci porta sempre a preferire il contrario. Così, in 150 anni di censimenti, mentre gli altri vanno su, noi andiamo giù… e viceversa. Anno 1881: mentre la Provincia di Alessandria e il Piemonte incrementano gli abitanti, noi scendiamo da 1532 a 1483. Naturalmente nel 1901, mentre gli altri si accontentano di salire intorno al 10%, noi strafacciamo e saliamo del 26% raggiungendo il record assoluto di 1791 abitanti. Venti anni dopo superiamo noi stessi, ma in negativo. Mentre Provincia e Regione tengono, noi scendiamo del 18%. Probabilmente non ci stavano tutti a masticare tabacco sotto San Rocco, così molti emigrarono a San Pedro. Ugualmente battiamo tutti nettamente, in negativo, nel 1931, ’36 e ‘51. Ma la corona d’alloro ci viene posta in capo quando saliamo sullo scalino più basso del podio nel decennio 1961 - ’71. A confronto della Regione che sale prima del 15% e poi del 19%, noi preferiamo sprofondare nel pozzo: meno 13% e meno 10%. Ma dopo succede l’incredibile: saranno Regione e Provincia ad adeguarsi al nostro trend negativo nel 1981 e nel 1991, anno, quest’ultimo, in cui a forza di mandar via gente, a brontolare sotto San Rocco rimangono soltanto 691 fresonaresi. E siamo nel nuovo millennio. Facendo catenaccio riusciamo a tenere il pareggio nel 2001, per poi sfondare quota 730 nel censimento del 2011, allineandoci alla tendenza del flusso migratorio degli altri enti locali proprio quando sarebbe stato meglio fare di testa nostra. Risultato: sotto il portichetto di San Rocco si prospetterebbe persino un positivo aumento del movimento interno, se non fosse che lo stato attuale a cui ci ha portati il degrado dei recenti governi ci ha tolto finanche la voglia di lamentarci in piazza.
GENNAIO 2013
LA MIA MAMMA FACEVA LA MAESTRA
Era una mattina di primavera. La mia mamma mi portò con sé a Pratalborato, dove era la maestra unica di una minuscola scuola in cui gli alunni occupavano in tutto non più di cinque banchi. Alla sera dello stesso giorno la decisione era presa: io da grande avrei fatto il maestro! Avevo 10 anni e nemmeno mio padre, che pure sapeva mettermi costantemente in guardia sui pericoli della vita, aveva ipotizzato il futuro degrado della scuola. Adesso di anni ne ho 59 e dal 1984 insegno nelle stesse aule che mi avevano visto alunno con il mio grembiulino sempre stirato e un collettino bianco inamidato che faceva invidia alla lama di un coltello. Ma io non sono un maestro. Sono un insegnante di ruolo a tempo indeterminato. L’anno scorso il capoclasse di quinta mi intimò di potersi rivolgere a me in codice PIN, o si sarebbe rifiutato di chiedermi il permesso di andare ai servizi: ogni volta che mi chiamava per uscire, prima di finire tutto quel titolo burocratico, se la faceva addosso. Quando il DS affermò al CD che gli insegnanti dovevano fare squadra, io pensai che finalmente si parlava di calcio. E invece il DS non era il direttore sportivo, ma il dirigente scolastico. La mia mamma lo chiamava direttore. Così come chiamava bidella la signora che puliva tutte le aule. Adesso non è più una signora, ma una CS ATA, che pulisce soltanto quanto indicato dalla tabella CGIL, che è di sinistra, per cui le finestre a dritta del corridoio sono abbandonate alla sporcizia sino a nuove elezioni. Sempre che vinca il PDL… Ieri era il primo giorno di scuola del nuovo anno. Prima di fare l’appello ho compilato le relazioni sul POF, sulla CC e sul CM. Poi, per essermi soffiato il naso in orario scolastico, ho redatto apposito verbale. Il tempo di catalogare per iscritto le Circolari che già era tempo di navigare sul sito per le iscrizioni online. E finalmente feci l’appello. Non rispose nessuno. Erano le 12:38 e gli alunni se ne erano già andati a casa senza nemmeno augurare buongiorno al loro maestro… voglio dire… all’insegnante di ruolo a tempo indeterminato. Ci rimasi molto male. Poi mi risollevai pensando che le cose funzionano così perché la scuola, per stare al passo con la modernità, non è più quella di mia mamma. Nonostante la CGIL, chiusi il portoncino con la mano destra, che la collaboratrice di sinistra era già andata ad una riunione sindacale. Mi voltai a guardare per l’ultima volta l’edificio. Sulla facciata campeggiava la scritta: SCUOLA ELEMENTARE. Sì, ma adesso non si chiama più scuola elementare. Si chiama… si chiama… Accidenti, non mi ricordo. Domani me lo farò dire dalle FS, o dalle RSU, o dalla DSGA…
SETTEMBRE OTTOBRE 2012
GIULIO CESARE PARLAVA FRESONARESE
C’è chi afferma che il dialetto fresonarese derivi dal celtico, chi dal longobardo, chi dall’emiliano, chi dal francese, chi da tutte queste lingue messe insieme… In Piemonte certamente la prima lingua autoctona fu il celtico. La conquista del territorio da parte dei Romani poco per volta fece sì che tutti parlassero in latino. La caduta dell’Impero Romano e l’arrivo di popolazioni barbare provocarono però la formazione di tanti “latini” tra cui il piemontese e l’italiano. Dunque oggi in Piemonte si parla il latino nel modo in cui si è trasformato nei secoli. E la variante fresonarese, come gli altri dialetti piemontesi, non è che una delle evoluzioni della lingua di Giulio Cesare. Perché, però, il piemontese è una lingua e non un dialetto dell’italiano, come ad esempio il lombardo? Perché classificare le lingue significa trovare le distanze che le separano. E tra l’italiano e il piemontese si sono trovati addirittura quaranta criteri di diversità. I confini in cui un determinato dominio linguistico presenta fenomeni grammaticali identici sono tracciati sulla carta con linee continue chiamate isoglosse. Ed esse dimostrano che a Fresonara, nonostante la sua posizione di confine tra Piemonte, Lombardia e Liguria, passa lo stesso circa il 90% delle parole del piemontese, quindi il nostro dialetto ne è certamente una variante.
AGOSTO 2012
SONO INTORNO NATE LE VIOLE
Scrivendo poesie, prosa, sceneggiature, articoli, ricerche storiche e quant’altro si possa immatricolare come segno grafico appartenente a un dato sistema di scrittura, in modo che possa poi essere interpretato mediante la lettura da chi quel sistema conosca, sono stato inventariato nella tipologia non-catalogabile. Se questo comporta l’inscatolamento nel più remoto scaffale del magazzino culturale, il vantaggio è che quando scrivo, non appartenendo a nessuna categoria, non ho il problema di seguire il codice deontologico della categoria stessa. Quindi oggi intervisterò me stesso. Naturalmente, conoscendo già la domanda che mi proporrò, mi detterò soltanto la risposta. Cominciamo!
- È vero, venerdì 20 luglio ero presente alla riunione per la riorganizzazione del nuovo Direttivo del giornale, il quale ora ha un Presidente, dei consiglieri, i revisori dei conti e un probiviro, che però è una donna, e così ci dovremo rivolgere all’Accademia della Crusca perché elabori una traslazione al femminile del termine. Dalle finestre, rigorosamente aperte per una convenzione con l’Associazione incaricata di abbassare lo spread tra la resa dei titoli del giornale della Redazione di Capriata e quelli della nuova Redazione di Masone, entrava un’aria poetica del tipo c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico… Ma siccome ad un certo punto la discussione, come l’aquilone, ondeggia, pencola, urta, sbalza, risale, prende il vento… per evitare che l’urlo s’inalzi, il Direttore, pur essendo anch’ella di genere femminile, fa comunque capire, in poche parole, chi è il sesso forte del giornale. Perché, vedete, cari lettori, un giornale ha una sola testata, ma decine di cervelli, con miliardi di dendridi che dipartendo incontrollati dal corpo cellulare a volte perdono la capacità di trasmettere segnali corretti. Tocca allora al capo, che come tale dovrebbe essere quello con la testa più a posto, riportarli all’unità funzionale del sistema giornale. Bene! Il nostro capo ha fatto capire subito, alle giovani penne, cosa vuol dire fare giornalismo. Non ha fatto cenni critici agli antichi scriba come il sottoscritto, ma del resto la venerazione per gli anziani è un comandamento universale. Chiusa la seduta si è aperta per voi, fedeli lettori cacciatori, l’unanime volontà dei presenti di continuare a darvi, attraverso le colonne di questi fogli, la possibilità di catturare la notizia dentro la notizia in un territorio conquistato dal nostro giornale con la freschezza del suo inchiostro.
GIUGNO 2012
FRESONARESI, CI SIETE?
Stabilito, negli articoli precedenti, che Fresonara esiste, veniamo alla dissertazione di oggi in risposta alle domande: Fresonara è abitata? Se sì, da chi? E se ciò non fosse, dove sono andati a finire i gloriosi abitanti della curtis medioevale che a dispetto del canzonatorio epiteto di bacecchi, per nulla intimoriti dalle minacce di Facino Cane e non rinnegando il giuramento, furono vittime del prepotente condottiero che mise a ferro e fuoco il paese? Probabilmente una frangia di quella soldataglia, deposte le armi belliche indossò le armi della seduzione per espugnare, dopo il castello, anche l’intimità delle belle indigene. Sarà che le donne si lasciarono conquistare dal fascino nemico, sarà che il nemico era abituato a risoluti modi, fatto fu che 36 settimane dopo le culle traboccavano di pargoletti che in bocca, invece del succhiotto, poppavano corteccia di frassino. Di lì a qualche anno nei paesi circonvicini iniziò a circolare la sentenza: Fërsnèra, cativa gèint e poca tèra. Che la terra fosse poca lo sappiamo: i fresonaresi avevano venduto a Bosco Marengo una parte del proprio territorio per avere in cambio denaro onde erigere il maestoso campanile. Ma ciò che più impressiona è l’aver accertato ormai con sicurezza che i figli erano sì cattivi, ma non per colpa dei padri, cioè gli antichi dispotici guerrieri. In effetti sembra che pur avendo come esempio di comportamento quel Cane d’un Facino, i mariti fossero meno facinorosi delle rispettive candide mogli fresonaresi. Tant’è che preferirono ritornare alle insidie della guerra, piuttosto che combattere una battaglia persa in partenza contro le ciabatte (intese come lingue) delle padrone di casa. La popolazione si dimezzò e la terra rimase incolta. Ne approfittarono i paesi vicini per modificare la sentenza di cui prima, in: Fërsnèra, poca gèint cativa tèra. Così, dovendosi avverare l’antica voce, Fresonara ancora oggi è il paese meno popoloso di tutti quelli indicati dai segnali stradali agli incroci. Di abitanti ce ne sarebbero comunque abbastanza per riempire la chiesa, traboccare a teatro, colmare tutti gli spazi alla sagra in Piazza don Orione… Eppure in tutte le occasioni qualcuno esclama esterefatto: ”Erano più quelli da fuori che i fresonaresi!”.
MAGGIO 2012
FRESONARA, DOVE SEI?
Fresonara, dov’è? Non al mare, non in montagna, non nel Monferrato, tantomeno nelle Langhe… Probabilmente sarà in Pianura Padana… Proviamo comunque a ritrovarla, iniziando dalle coordinate. La latitudine indica 44° 47’ 2”04 NORD. Vale a dire 4.975 km dall’equatore e 5.025 km dal Polo Nord. La nostra longitudine è: 8° 41’ 13”92 EST. E questo precisa che quando l’orologio del campanile suona mezzogiorno, in realtà a Fresonara sono le ore 11, 34 minuti e 44 secondi. La nostra altitudine media sul livello del mare è di 143 m. In realtà andiamo dai 160 m di S. Glicerio ai 120 m dell’Orba. Passando alla superficie, il nostro paese misura 6,94 kmq, cioè 694 ettari, che a loro volta valgono 10.000 mq ciascuno. Orbene: sapendo che lo staio di Fresonara equivale a 589,50 mq, vuol dire che un ettaro è pari a 17 staia. Dunque Fresonara conta 11.798 staia. L’Italia è stata divisa, dal 1993, in 6 zone climatiche. Trovandoci noi nella Zona Climatica E, il limite massimo consentito di accensione degli impianti termici delle nostre case è di 14 ore giornaliere dal 15 ottobre al 15 aprile. Ciò perché si è stabilito, convenzionalmente, che la temperatura esterna sia sempre di 20 gradi per tutto l’anno. Calcolando la differenza tra la temperatura convenzionale e la temperatura reale di Fresonara in un anno, risulta che noi abbiamo bisogno di 2.671 gradi giorno (GG), distribuiti in sei mesi per pareggiare il conto. Tanto per curiosità, nella fascia E ci sono altri 4.270 comuni. Più il numero dei GG è alto, più gli abitanti di quel comune hanno diritto a tenere il riscaldamento acceso per un periodo più lungo. La legge è chiara: “Al di fuori di tali periodi gli impianti termici possono essere attivati solo in presenza di situazioni climatiche che ne giustifichino l’esercizio e comunque con una durata giornaliera non superiore alla metà di quella consentita a pieno regime”. Passiamo ad analizzare, ora, la Classificazione Sismica. Fresonara è fortunata: si trova nella ZONA 4, vale a dire la meno pericolosa. Nei Comuni inseriti in questa zona le possibilità di danni sismici sono basse. Comprende 3.488 Comuni. E terminiamo con la Regione Agraria. Fresonara è classificata come: n. 11 B. Il che equivale a dire: Pianura del Tanaro alessandrino e del Bormida. E adesso speriamo di non perderci più.
APRILE 2012
FRESONARA, L'ORA DELLA VERITÀ
In Italia, per convenzione, il Tempo Civile è lo stesso in tutto lo Stato. Ciò regola i nostri orologi, i quali indicano tutti, in un dato istante, la stessa ora. In realtà, se prendiamo come riferimento il Sole, in Italia è davvero Mezzogiorno soltanto nei punti in cui, in quel preciso momento, esso si trova alla sua massima altezza sull’orizzonte (zenit). Il che avviene solo nei luoghi con uguale longitudine. Dunque, mentre il Mezzogiorno Civile è lo stesso per tutta l’Italia, in realtà il Mezzogiorno Astronomico non lo è affatto. In Italia il Mezzogiorno Astronomico coincide con quello Civile soltanto sul 15° meridiano, che passa sull’Etna. Pur non essendo vero, immaginiamo, per convenienza, che la Terra abbia una marcia di rotazione su se stessa uniforme come i nostri orologi. Poi suddividiamo la superficie terrestre in 24 Fusi Orari, cioè spicchi (come quelli delle arance) compresi tra due Meridiani distanti uno dall’altro 15 gradi, che corrispondono ad un’ora. Tutto il territorio di uno spicchio ha convenzionalmente la stessa ora del suo Meridiano Centrale. Il Meridiano Centrale italiano passa, come già detto, per l’Etna. Quindi: mentre in tutta Italia gli orologi segnano le 12 (Mezzogiorno Civile), in realtà il Mezzogiorno Astronomico, è soltanto sulla linea di questo Meridiano che, partendo dal Polo Nord, va al Polo Sud passando sul cratere del vulcano siciliano. Ma quando il Sole è allo Zenit sull’Etna, dove Mezzogiorno Civile e Mezzogiorno Astronomico combaciano, a Fresonara, che si trova invece sul Meridiano 8° 41', è soltanto Mezzogiorno Civile, non certo Astronomico. Allora, a che ora possiamo sederci a tavola, noi bacecchi, visto che quando i nostri orologi indicano le 12:00, in realtà non è mezzogiorno? Considerando che il nostro paese ruota da Ovest verso Est e che la sua longitudine, come detto, è 8° 41' Est, vuol dire che quando il Sole è allo Zenit sul Meridiano 15, quello che, ripetiamo ancora, indica per convenzione il Mezzogiorno in tutta Italia, in realtà a Fresonara, essendo soltanto a 8° 41', il Sole è in ritardo di 6° 19' di angolo giro. Sapendo che 15 gradi di angolo giro corrispondono a 3.600 secondi (1 h), 8° 41' corrispondono a 2.084 secondi, cioè 34 minuti e 44 secondi. Quindi, quando in Italia sono, per convenzione, le ore 12.00, a Fresonara sono le ore 11, 34 minuti e 44 secondi. Conclusione: anche se non avete capito niente perché io mi sono spiegato come un cinese che parla arabo, avrete comunque compreso che la colpa del fatto che a volte la fame non vi viene a mezzogiorno, ma 25 minuti e 16 secondi dopo, è dell’Etna.
MARZO 2012
TEATRO A FRESONARA
AMOR CH'A NULLO AMATO AMAR PERDONA
Il titolo è oneroso… E lo sanno gli attori del Carro di Tespi, che da settembre provano e riprovano le stesse battute. Che però variano, perché il regista prima ammicca, poi gli viene il ghiribizzo di cambiare tono. E movimenti. Così l’entrata non si fa più da destra, ma da sinistra. Senza mugugni, che le sue direttive sono tecniche, come quelle del governo. Quindi, oltrepassare le quinte da dritta o da manca non impegna politicamente. La commedia è romantica per i temi amorosi. Ma la struttura è ricca di elementi giocosi. Così la componente comica si fonde con quella tragica, rappresentata dal complotto ordito ai danni di due timidi amanti per tentare di sviare la storia dal lieto fine. Il titolo, preso nel senso letterale come al verso 103 del Canto V dell’Inferno della Divina Commedia, enfatizza la forza travolgente dell’Amore, il quale non consente ad una persona che sia davvero amata di non ricambiare. Per opposte situazioni si dovranno dunque voler bene per forza, oltre che Margherita (Francesca Bilotta) e Claudio (Gerardo Melucci), anche Beatrice (Antonella Ferranti) e Benedetto (Michele Massone). Le vicende delle due coppie intersecano le loro traversie durante gustose trattative per un accordo di collaborazione tra due produttori di vino: il Cavalier Merlassino (Paolo Simoni) e Don Marsaglio (Valter Nicoletta). Se un amore impossibile si schiude, un tenero rapporto rischia di spegnersi per le trame di Màlfida (Monica Boccaccio) e Volpina (Tiziana Boccaccio) che hanno giurato vendetta… Ma alla fine, come ricorda Fidata (Alessandra Colombo), l’Amore trionfa sempre, come le scenografie e i costumi di Elisabetta Siri. Consulenza musicale di Marina Perfumo. La prima a Fresonara il 17 marzo e la replica a Novi Ligure il 28 aprile.
GENNAIO 2012
COME 48 ANNI FA: A FRESONARA È TORNATO GELINDO
“Non offenderti, Mafé, ma non mi fido” ripete tre volte Gelindo tornando nella stalla prima di andare a farsi registrare all’anagrafe. Ma di cosa non si fida, Gelindo? Non si fida dei giovani, che bighellonano dal mattino alla sera. Poi non si fida dei delinquenti, dei ladri e soprattutto delle leggi dei Romani, che con la scusa di indire il censimento portano via i soldi ai poveri pastori. Sarebbe tutto come oggi, se non fosse che quelle parole sono state pronunciate 2011 anni fa. E venti secoli dopo, oltre ovviamente ai ladri e ai delinquenti, i vecchi continuano a non avere fiducia nei giovani. Perché i giovani hanno tutto, non vogliono più faticare e combinano guai. Poi al bar i vecchi raccontano della propria gioventù e riportano alla mente di quando fecero deragliare il trenino che passava a Fresonara, di quando cacciavano nella riserva e di quando rubavano l’uva nelle vigne. Anche Gelindo sgrida Tirsi che disubbidisce, ma onestamente ammette che all’età del giovane servitore lui era anche peggio. Gelindo non leggeva i giornali e più ancora non scriveva articoli, altrimenti si sarebbe anche posto la domanda del perché, se un giornalista non la pensa come la Redazione, il suo articolo non viene pubblicato. Le statistiche affermano che l’aspettativa di vita aumenta ogni sei mesi. Allora, quando si diventa vecchi? Non si diventa vecchi ad un’età prestabilita. Si è vecchi in ogni momento della vita quando si censura il pensiero che svicola dai nostri pregiudizi, demolisce le nostre certezze, azzera le nostre opinioni. Non offenderti anche tu, Gelindo, ma questa volta ha vinto Tirsi. Che non ha più l’età del giovincello, ma ha avuto la soddisfazione di scorrere 56 pagine di un bel giornale ripulito nella grafica, senza oroscopi e senza ricette del mese. Ma soprattutto ha letto, nelle pagine dedicate ai piccoli, le parole del Dirigente Scolastico Silvana Montecucco, la quale non ha avuto paura di svelare ai giovani giornalisti le difficoltà in cui si trova oggi la Scuola. Io sono di un paese in cui gli attuali Gelindo non sono pastori, ma moderni agricoltori che utilizzano sofisticati mezzi tecnologici per coltivare prodotti che vendono allo stesso prezzo dei loro padri, i quali aravano con due buoi e zappavano con i calli delle mani le dure zolle della cavagneura. E anch’io, come lei, prof.ssa Montecucco, mi domando cosa ci direbbero i bambini se avessero il permesso di sgridarci per questo mondo che lasceremo loro in eredità, dove le misure sono sempre quelle dei grandi. Grandi intesi come vecchi, che di grande, molte nostre idee, hanno davvero poco. Buon Natale, bambini.
SETTEMBRE 2011
L’UNIVERSITÀ SOTTO IL GAZEBO
Terza: l’Académie des Scienzes de l’Institut de France. Seconda: l’Accademia dei Lincei. Vince e stravince, l’Accademia degli Onniscienti del Lamento Fresonarese. Con sede principale sotto il Gazebo del Pianto, a volte le lezioni, causa la sudorazione estiva degli illustri insigni cattedratici, sono tenute in sedute straordinarie all’ombra dell’acacia fiocchina. La principale onniscienza trattata è l’Orto. Macché ortodonzia, ortodossia, ortoepia, ortofrenia, ortopedia, ortogenesi, ortognatismo… Orto! Orto e basta. Orto inteso come estensione di terreno cintato, dove si coltivano erbaggi. Cintato perché per gli accademici della culinaria scienza potrebbe essere permesso di ballare in un campo minato, coricarsi su una pista di Formula Uno, ma guai a lasciare l’impronta di un solo tacco proprio dove si è seminato a spaglio. Di grande fama sono anche i relatori di Filosofia dell’Amministrazione, intesa come Comune e sottintesa come Sindaco del paese, che naturalmente non ne armonizza una giusta. Peccato che lo Stato abbia tagliato i fondi per i ricercatori dell’Accademia, altrimenti avrebbero potuto approfondire lo studio sulla psicodinamica per comprendere i processi mentali inconsci che spingono la maggioranza dei fresonaresi a votarlo ininterrottamente da 25 anni. I dottori in Patologia, Podologia e Psicolabilità del Calciatore sono i più seguiti dai giovani laureandi, i quali, estasiati dalla profondità degli argomenti, possono annegare… scusate, possono laurearsi, nel giro di due campionati, nei seguenti rami: Calciomercato fallimentare della Juve, Calciatori-bandiera e Calciatori-bandierine, Con i soldi si compra tutto. Causa i miei cronici ritardi alle lezioni dovuti a piccoli lavori domestici post-pranzo, purtroppo ho saltato quasi tutto il corso su: lo Stato, lo Stato sono io, Se fossi io lo Stato, Guarda in che stato sono! Mi sono fatto dare comunque gli appunti verbali dagli assidui frequentatori e ho scoperto che a Fresonara tutti sarebbero capaci di essere al posto di Berlusconi, o di Prodi, e pure di Bersani, che intanto sono tutti uguali, cioè: ladri, delinquenti, mafiosi, carichi di soldi e mentre a noi tolgono persino il militare che abbiamo già riscattato, loro vanno in pensione dopo una sola legislazione. Altre materie altrettanto importanti per il corso di laurea, che prevede severi esami da sostenere di fronte alle acculturate commissioni, sono: C’era una volta a Fresonara (che era meglio di adesso); I giovani moderni (che per loro è troppo comoda); I Giornalisti (che scrivono per riempire le pagine). Argomenti a corollario dei menzionati possono essere richiesti a piacimento. Basta gettare l’amo e i professori tuttologi… abboccano.
GIUGNO 2011
FINALMENTE LA BIBLIOTECA COMUNALE
“Inaugurata dall’Assessore Regionale Ugo Cavallera la Sala Lettura dedicata a Mauro Monferino”
La targa dedica la Sala di Lettura al compianto Mauro Monferino, che se fosse stato presente, sarebbe svenuto dalla gioia. Per tutta la sua breve vita aveva sostenuto che a Fresonara doveva essere realizzata la Biblioteca Comunale. Ma gli anni passavano, lo spazio non c’era, i soldi non arrivavano ed egli, stufo di aspettare, pensò di lasciare ai posteri l’incombenza di inaugurarla. E i posteri hanno esaudito il suo desiderio domenica 22 maggio con una festa degna di un evento eccezionale. Benedizione dei locali da parte di Mons. Sandro Cazzulo, poi alle ore 16 taglio del nastro tricolore, per permettere al numeroso pubblico di accedere all’interno, da parte dell’Assessore Regionale Ugo Cavallera. È toccato alla mano tremante della mamma di Mauro il compito di scoprire la targa dedicata al figlio. Gli interventi dello stesso Cavallera, dell’Assessore alla Cultura di Fresonara Paola Penovi e del Sindaco dott. Massimo Bisio, il quale in queste circostanze sa sempre trovare le parole che toccano il cuore dei Fresonaresi, hanno rimarcato l’importanza di ritornare al libro per superare l’attuale momento di crisi culturale generale. Ampio spazio all’editoria per bambini tra gli scaffali disegnati da un vero artista come Elio Sanzogni, in una elegante sala attrezzata con PC e collegamento ad Internet. Certo il rischio che, dopo l’euforia iniziale, la Biblioteca rimanga un luogo deserto è alto. Ma in paese c’è l’Associazione Culturale Lo Scagno, i cui adepti sono pronti a scommettere che, con una piccola spesa mensile, la Biblioteca Comunale di Fresonara potrebbe, invece, diventare nel giro di un paio d’anni un centro di ricerca prezioso e unico in tutta la provincia. O sono pazzi, o si potrebbero anche invitare ad esporre la loro idea…
FEBBRAIO 2011
FRESONARESI… CARICA!
“Si scopron le tombe si levano i morti…”cantavano i garibaldini. Ma quanti fresonaresi avranno intonato quelle note durante le guerre del Risorgimento? La risposta è difficile, perché di quei momenti si sono perse le tracce e degli uomini la memoria. Quel che rimane, nel ricordo degli anziani, nessuno dei quali, per ovvie ragioni d’età, testimone oculare, è legato più agli aneddoti che alla storia vera. Certamente ci sono stati diversi fresonaresi che hanno combattuto nelle battaglie delle tre guerre d’Indipendenza, e di alcuni abbiamo notizie certe. Già abbiamo parlato a lungo, nel numero precedente, del garibaldino Carlo Rodi, il quale, originario di Bosco Marengo, passò gli ultimi anni della sua vita a Fresonara. Ma su LO SCAGNO del dicembre 2003 avevamo anche narrato le vicende di Andrea Barco, nato proprio l’anno in cui Giuseppe Mazzini, in esilio in Francia, fondò la Giovine Italia. Il programma della Società era di rendere l’Italia una, indipendente, libera e repubblicana. Forse era un segno del destino, ma il giovane Andrea Barco, nacque a Fresonara il 30 novembre proprio di quel fatidico anno 1831. Nel 1848, quindi a soli 17 anni, cantando i versi della famosa aria di C.A. Bosi, “Addio mia bella addio, l’armata se ne va…” partecipò attivamente alla prima Guerra d’Indipendenza, per finire, undici anni dopo, con la seconda e nel 1861 vedere la proclamazione del Regno d’Italia.
Nel 1861 il soldato Andrea Barco aveva 30 anni giusti. Per le sue campagne di guerra, gli venne riconosciuto un ASSEGNO PER RICOMPENSA NAZIONALE, di 100 lire lorde, che però ricevette, come si evince dal Certificato d’Iscrizione che i parenti ci hanno messo a disposizione, alla tenera età di 75 anni! Fatta l’Italia, i governi italiani sono sempre gli stessi…
Un altro fatto lega la nostra terra al Risorgimento. Siamo esattamente nella notte del 19 maggio 1859. A Fresonara è accampato il II Reggimento Volteggiatori di Napoleone III. Il corpo musicale della locale Società Filarmonica decide di eseguire una serenata in onore del Comandante. Quindi prolunga la serata con un pubblico concerto che – come ci spiega Pietro Vernetti nel suo libro sulla storia di Fresonara – allora era nelle Corti presso la Crosa. Il Colonnello – continua il Vernetti – offrì sigari, dolci e bibite ai musicanti esternando i sensi di ringraziamento per così squisita improvvisata goduta in un piccolo paese. Il destino di quei soldati volle che quella fosse per molti di loro l’ultima occasione di divertimento. Sedici giorni dopo, il 4 giugno, nella battaglia di Magenta, il Reggimento venne decimato. Molto probabilmente il Comandante di cui fa menzione il Vernetti, era il famoso colonnello Félix C. Douay.
OTTOBRE 2010
LA SPEDIZIONE DEI MILLE
QUEL CHE IL SUSSIDIARIO NON DICEVA
Ci stiamo avvicinando velocemente al 2011, inteso come il 150° anno dal giorno in cui, nel gennaio del 1861, si tennero le elezioni per il primo Parlamento Italiano. Su quasi 26 milioni di abitanti, il diritto a votare fu concesso dai nuovi governanti solo a 419.938 persone (circa l’1,8%). Di queste, si recarono a votare soltanto in 239.583. Alla fine i voti validi si ridussero a 170.567, dei quali oltre 70.000 erano di impiegati statali. Furono eletti 85 fra principi, duchi e marchesi, 28 ufficiali, 72 fra avvocati, medici ed ingegneri. Con la conseguente prima convocazione del Parlamento Italiano del 18 febbraio 1861 e la successiva proclamazione del 17 marzo, Vittorio Emanuele II divenne il primo re d’Italia. Il Risorgimento non era ancora concluso, però la strada dell’unificazione dello Stato era ormai stata tracciata.
Ma cosa sappiamo del Risorgimento più di quanto scritto nelle due pagine che il sussidiario di quinta dedicava all’avvenimento? A ricordarci alcuni personaggi che “hanno fatto l’Italia” concorrono le strade dei nostri paesi. Quale Comune non ha Via Mazzini, Corso Garibaldi, Viale Cavour? Da bambini tutti abbiamo fatto il tifo per Garibaldi! Del resto era l’unico che vinceva le battaglie… E poi chi non si ricorda la Spedizione dei Mille? Imbarcati su due piroscafi, 1000 uomini vestiti di rosso partono da Quarto e si dirigono verso la Sicilia. I libri, per mancanza di spazio, riportano sempre il nome di due soltanto: Giuseppe Garibaldi e Nino Bixio. E gli altri 998? Proviamo a tappare qualche falla. Intanto, come lo stesso Eroe dei due mondi ci fa sapere direttamente dal suo libro “I Mille”, scritto circa dieci anni dopo la Spedizione, il totale dei partecipanti fu esattamente, lui compreso, di 1088 uomini e una donna: Rosalia Motmasson, la moglie di Francesco Crispi, principale mente politica della Spedizione. Per la maggior parte i volontari erano Lombardi (434), Veneti (194), Liguri (156), Toscani (78), Palermitani (45), altri Siciliani (26) Stranieri (35) e 30 Piemontesi. La composizione politica era una sola, quella della sinistra repubblicana. Non c’erano contadini. Così, l’11 maggio 1860 sbarcano a Marsala, tra gli altri, 150 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri, 60 possidenti, circa 500 tra artigiani e commercianti, 2 sacerdoti. A questo corpo di volontari, diviso in sette compagnie, fu dato in un primo tempo il nome di Cacciatori delle Alpi. Di essi circa 80 persero la vita nelle varie battaglie, 34 soltanto a Calatafimi. Al ritorno alla vita civile sei furono rinchiusi in manicomio, due morirono suicidi.
SI SCOPRON LE TOMBE, SI LEVANO I MORTI…
Con queste parole inizia l’Inno di Garibaldi, eseguito per la prima volta il 31 dicembre 1858, alla presenza del generale e di Nino Bixio. Autore del testo fu, per richiesta dello stesso eroe dei due mondi, il poeta Luigi Mercantini, noto anche per La spigolatrice di Sapri, struggente rievocazione romantica della spedizione, repubblicana e mazziniana, di Carlo Pisacane. L’inno fu musicato da Alessio Olivieri. Probabilmente fu cantato anche dalle 1089 camicie rosse che sbarcarono in Sicilia per quella Spedizione dei Mille che sicuramente è la manovra bellica più conosciuta dagli Italiani. E se i piemontesi partecipanti furono una trentina, quasi la metà furono alessandrini. Ricordandoli in ordine alfabetico, iniziamo da Buffa Emilio, nato ad Ovada il 18 novembre 1833, poi residente a Trino, barbiere, morto il 23 dicembre 1871. Nato a Novi Ligure il 17 ottobre 1835, Cattaneo Francesco era un negoziante. Cogito Guido Lorenzo Giovanni Battista, nato ad Acqui il 22 novembre 1841, si trasferì a Milano per fare il parrucchiere. Giola Giovanni, invece, nacque ad Alessandria il 13 novembre 1814, quindi si trasferì a Torino. Seppure nato a Genova il 29 novembre 1840, Gorgoglione Giuseppe venne ad abitare in Alessandria per esercitare la professione di dentista. Curiosa l’attività di Marchelli Bartolomeo, il quale, nato ad Ovada il 24 agosto 1834, si trasferì a Napoli per fare il prestigiatore girovago. Capitano di fanteria del Distretto Militare di Salerno, dove andò ad abitare, Olivieri Pietro era nato in Alessandria il 25 giugno 1835. Al contrario, invece, aveva traslocato in Alessandria Pernigotti Giovanni, nato a Bosco Marengo il 15 novembre 1842; mentre Punta Paolo Giuseppe nato a Novi Ligure nel 1841, ivi morì il 15 novembre 1864. Repetto Domenico nacque, invece, a Tagliolo il 1° agosto 1829 e nello stesso paese morì il 18 novembre del 1871. Ancora di Bosco Marengo, dove nacque nel 1801, fu il maggiore Rodi Carlo, morto poi a Fresonara il 22 febbraio 1861, cioè quattro giorni dopo la prima convocazione del Parlamento Italiano. Romanello Giuseppe venuto alla luce il 18 marzo 1839 ad Arquata Scrivia, si spense all’ospedale di Calatafimi il 24 maggio 1860. Infine ricordiamo Turolla Pasquale, che, pur non essendo alessandrino perché nato a Badia Polesine il 13 aprile 1825, trovò la morte ad Acqui Terme nel novembre del 1871.
Per quale motivo si iscrissero volontari alla Spedizione? Quali erano davvero i loro ideTutti eroi?ali? A queste e a molte altre domande si potrebbe cercare di rispondere se di questi tredici uomini si sapesse qualcosa in più. In fondo sono passati soltanto 150 anni ed essendo a conoscenza delle date di nascita e di morte si potrebbe risalire con una certa facilità ad ulteriori più approfondite notizie. Il giornale metterà a disposizione di chiunque sa o voglia fare ricerche su uno di questi garibaldini, lo spazio necessario per capire meglio cosa fu veramente, attraverso le esperienze di soldati il cui nome non è riportato sui libri di storia, la Spedizione dei Mille.
SETTEMBRE 2010
AH SÌ? NON LO SAPEVO…
La ricerca di se stessi
“In questo paese non c’è mai niente!” Inizia così il colloquio, protocollato in piedi, con il mio interlocutore di turno. Naturalmente la sentenza è dell’interlocutore. Perché a me, fino ad un secondo prima, era sembrato che qualcosa ci fosse! Certo nulla di eccezionale, ma insomma… Faccio notare che da gennaio ad agosto, nel Teatro Comunale, molti testimoni giurano di avere intercettato 16 manifestazioni, le più diverse. Mi risponde che lui non fa la spia. E poi a teatro non va, il figlio frequenta le primarie altrove, disgusta le sagre e non si interessa degli antichi mestieri. Continuo ricordandogli che per un mese il paese è stato addobbato con bandiere e striscioni multicolori… Conferma di avere visto di sfuggita che c’era della roba appesa per le vie, ma che al campo sportivo si svolgesse da anni il Torneo dei Quattro Rioni, non ne era al corrente. Poi, non essendo attratto dal calcio, gli è sfuggito anche il torneo del suddetto sport. Alla ricerca di qualcosa che possa fargli giungere un messaggio di fraterna comunione, mi aggrappo ai festeggiamenti per il Compleanno di Fresonara. Dal 2001 ad oggi ce ne sono stati 37! E invece il discorso s’impantana subito, perché afferma di non conoscere nessuna signora che si chiama Fresonara… Gli rivelo, allora, che ci sono anche momenti di generosa solidarietà, con la raccolta di migliaia di euro da destinare ad associazioni umanitarie. Però lui non si fida: chissà che fine fanno i soldi… Ribadisco che se è solo per quello, l’Associazione Culturale Lo Scagno lavora gratuitamente dal 1999. Ma come si fa a spiegare cos’era lo scagno, dov’è il Bedale e i proverbi in dialetto a chi non è mai stato giù dalla Crosia… Mentre sto per raccontargli delle tradizionali processioni religiose, mi interrompe per chiedermi se ci fosse stato un incidente, mercoledì 8 settembre, quando i carabinieri hanno bloccato il traffico all’incrocio del monumento. Mi domando perché io devo essere così cretino da perdere il mio tempo con lui. Ed è a proposito di cretini, che il suo verdetto non ammette appello: il paese ne è pieno! Ah - gli confesso sottovoce - ecco perché quando lei era in ferie correva voce che ne mancasse uno! Fa finta di niente… ma ha capito. Sposta di lato i piedi, sintomo che se ne vuol andare. Lo anticipo: me ne vado via prima io. Lo incontro il giorno dopo. Che fortuna, posso informarlo che anche quest’anno ci sarà il concerto dedicato a Don Fasciolo. Non saluta. Volge lo sguardo altrove. Alla ricerca di se stesso che a Fresonara non c’è…
GIUGNO LUGLIO 2010
TRATTI DISTINTIVI E CURIOSITÀ DEL DIALETTO FRESONARESE
Il Piemonte è stato, nella sua storia, un crocevia di popoli, eserciti, culture e tradizioni diverse. Ancor più per i paesi che si trovavano al confine tra Liguria, Lombardia ed Emilia. Facile capire come mai nel nostro vocabolario troviamo, oltre alle parole di origine latina, anche vocaboli francesi, occitani, celti, liguri, germanici, longobardi, franchi… Tra le parole latine ricordiamo: riva; triä (tritare); avrì (aprile); ävja (ape); amisa (amica); feu (fuoco); firmeja (formica); rëi (ridere); leu (luogo); reuoa (ruota); cheuoa (coda); märi (madre); mair (maturo); càud (caldo); ätri (altro); àut (alto); sautä (saltare); autä (altare); doss (dolce). L’avverbio dlònch, dlònca (sempre) deriva, invece, dalla forma dialettale ligure “de longu” o “de longa”. Il gallo-romanzo travajé (lavorare) coesiste a Fresonara col latino laborare. Per cui diciamo: “A vägh a laurä” e “A gh’heu da fä in traväj”. Di origine gallo-italico pianz (piangere). L’influsso lombardo lo troviamo nelle forme a-gh’heu (io ho); o-gh’è (c’è). Anche ciapä (prendere), è sicuramente sorretto dal lombardo ciapà, come barbarëi (mento); arborent (prezzemolo); adess (adesso); dideuo (indice, pollice); särs (salice) e i numeri da undici a sedici. Del medioevo sino alla fine del XVI secolo troviamo termini che con le dovute variazioni sono entrati nel nostro dialetto: cassù (mestolo); sëbri (mastello); oteuo (ottone); rancä (sradicare); èra (aia); bora (catasta di covoni); biä (bedale, roggia); biäva (biada, avena); causséina (calce); creusia (strada incassata); sliä (slegare); aliäm (letame); lóbia (tesa del cappello); amsoria (piccola falce messoria); niss (ammaccatura della frutta); pàisa (peso pubblico); räp (grappolo); ariarët (avvallamento per raccogliere le acque piovane); stopeuo (tappo). Nel Settecento le classi sociali si distinguevano anche nel parlare in tre modi diversi il piemontese: il Cortigiano, usato nelle Corti; il Volgare, usato dai cittadini; il Plebeo, usato dal popolo minuto. Pronunce diverse che sono rimaste: chigiä - chigé (cucchiaio); barzä - brisä (bruciare); sminä - simnä (seminare); sbreusli - sbris (brice, fieno molto secco). Tra i caratteri fonologici del piemontese rustico, c’è a Fresonara la tendenza ad eliminare dal nesso iniziale gu la g: guaciä diventa uaciä (osservare); guadagnä = uadagnä (guadagnare); guant = uant (guanto); guèra = uèra (guerra); guarì = uarì (guarire). Però, per dire dunque abbiamo preferito scegliere il cittadino dònca piuttosto che il rustico dòncre. In tempi più recenti è l’influsso dell’italiano che determina alterazioni del nostro sistema fonologico. Ma se l’italiano influisce sul fresonarese, è pur evidente che il fresonarese influisce sulla nostra pronuncia dell’italiano: perchè, affinchè, trentatrè… invece di perché, affinché, trentatré; propio invece di proprio; gnente invece di niente...
MAGGIO 2010
FRESONARA E IL SUO CAMPANILE
La sua edificazione è… proverbiale
Proverbi! Chi li definisce: la sapienza degli avi. Chi li considera alla stregua di futili sciocchezze. Certamente questi brevi detti popolari contengono un insegnamento desunto dall’esperienza. Ecco perché, sullo stesso argomento, esistono proverbi che sono l’antitesi uno dell’altro. L’origine antichissima di alcuni e la facilità con cui il senso viene immediatamente recepito anche dagli strati più umili, ne hanno permesso la diffusione in tutte le categorie sociali. La maggior parte trattano argomenti sotto un punto di vista generale, alcuni, invece, sono nati in occasione di particolari avvenimenti che riguardano una singola località. Fresonara non sfugge all’occasione e anche il nostro paese può vantare proverbi ad essa dedicati, alcuni dei quali certamente legati ad avvenimenti storici. Il 1° agosto 1566 Papa Pio V, con la bolla “praeclarum quidem opus” deliberò la costruzione del convento domenicano di Santa Croce a Bosco Marengo. Il progetto fu predisposto da padre Ignazio Danti. Collaborarono Martino Longhi, Giacomo della Porta, Rocco Lurago. Probabilmente in quel periodo i Trotti, feudatari di Fresonara, si rivolsero agli ingegneri di Santa Croce per avere un progetto adatto alla costruzione della torre campanaria di Fresonara, rendendosi disponibili a supportarne le spese. Può essere, dunque, che i Trotti abbiano venduto alcuni loro possedimenti agrari in paese in cambio di denaro per la mano d’opera e il materiale. Ciò spiega l’origine della prima parte del detto: Quëj ‘d Fërsnèra i j’heuo vandù ra fëj pir fä ra pòncia ar campanëi… (letteralmente: quelli di Fresonara hanno venduto il confine per fare la punta al campanile). Da tenere presente che in quegli anni era Vescovo di Alessandria il fresonarese Guarnerio Trotti, eletto alla carica dallo stesso Pio V. Storicamente risulta che nell’anno 1573 lo stesso Guarnerio posasse la prima pietra del campanile della parrocchia fresonarese. Ad avvalorare la tesi del proverbio non può sfuggire il fatto che il nostro campanile sia la fotocopia di quello della chiesa di Santa Croce. Naturalmente la tradizione vuole che i fresonaresi non accettassero di buon grado lo scherno dei boschesi e dunque pensarono di concludere il proverbio aggiungendo il finale: …quëj dir Bosch che i l’heuo catäja i gh’heuo ra pòncia squatagnäja (e cioè: quelli di Bosco, che si vantano di avere comprato la nostra terra, non son riusciti a far di meglio che avere un campanile con la punta schiacciata). In effetti, data l’enorme mole di Santa Croce, rispetto alla chiesa fresonarese, il nostro campanile sembra molto più slanciato verso il cielo.
APRILE 2010
L'ERBA DEL MIO STUPORE
Fresonara: spettacoli per il WWF
Alla domanda: “Che cosa ne farà di tutto quel denaro?” il vincitore risponde sempre: “Non so ancora, ma certamente farò un viaggio intorno al mondo”. Io no! Io non ho nessuna intenzione di andare più lontano di Cuquello. E comunque, se dovessi vincere una grande somma, so già cosa farei. Realizzerei un minuscolo teatro la cui la macchina scenica, però, farebbe invidia ai tecnici della Scala di Milano. Non ho bisogno di architetti. Il progetto ce l’ho disegnato davanti agli occhi da quando avevo 10 anni. E la scenografa, alla consolle, finalmente non avrebbe che da pigiare un solo tasto per atto. Poi, per il relax, costruirei una casetta ad un solo piano, completamente di vetro, nel prato sotto il boschetto. Da lì, sdraiato supino, al sicuro dai lampi, mi godrei quei meravigliosi scrosci d’acqua che ad agosto fanno dire: “È finita l’estate”. Infine, visto che l’Italia ormai svende tutto, mi comprerei a buon mercato la Scuola Primaria di Fresonara e la trasformerei come dico io! A questo punto, considerato che non mi manca certamente l’amore della moglie e l’affetto dei famigliari, penso che le mie esigenze siano finite e tutto il resto della somma la lascerò alla medicina, affinché trovi il modo di far ringiovanire di trent’anni Platini e Causio, così la Juventus li ricompra ed io non mi addormento sul sofà quando gioca la Vecchia Signora. Tutto il resto (tolto il metano, la benzina e il toner della fotocopiatrice) il Signore me lo dà gratis, per cui non ho bisogno di denaro per far crescere l’erba nel mio rivone. È già altissima, dello stesso verde con il quale la coloravo da bambino. Ogni anno copre tutta la costa, da cima a fondo, per ricordarmi di quelle capriole che oggi mi procurerebbero certamente una vertigine parossistica posizionale. Ma prima ancora sboccia il lamio, nella cui gola i bombi atterrano come su una portaerei. Nel boschetto le robinie lottano col sambuco. I loro grappoli fioriti sono i più belli del mondo. Secondo me, la vigna granda, ricoperta dei bianchi racemi, dovrebbe essere uno spettacolo protetto dal WWF. Come il crepuscolo, quando il 21 marzo il sole, infuocando le Alpi Occidentali, cala esattamente dietro il Monviso. E dire che ci sono persone che se vincessero al SuperEnalotto andrebbero al Circolo Polare Artico. Ma ve lo faccio vedere io cos’è un tramonto! Gratis. E mia moglie vi offrirebbe persino un caffè. Comodamente seduti sulla sponda del mio cortile, che già da solo vale un’intera scatola di pillole anti tress. Senza controindicazioni e senza ticket.
MARZO 2010
WWWLOSCAGNOFRESONARA.IT
Bisogna accendere il PC. Poi cliccare su Internet. Nella finestrella del motore di ricerca scrivere: www.loscagnofresonara.it. Rigorosamente tutto attaccato, come va di moda negli indirizzi web. Si apre la home page dell’Associazione Culturale LO SCAGNO. La strisciata in alto ci presenta alcuni scorci del paese. Assolutamente deserti. Certo la cultura, qui, se si escludono le manifestazioni per il Compleanno di Fresonara, non la trovi per strada. A meno che non si vogliano far passare per culturali e ricerca delle proprie radici alimentari… le pantagrueliche abbuffate che dalle nostre parti si spacciano per sagre. Scorrendo il menu troviamo diverse sezioni. Alla voce FRESONARA passiamo in rassegna il dialetto, gli eventi, le curiosità, le foto e la mappa del paese. Appena sotto si possono ritrovare le sei pagine, moltiplicate per 43, in pdf, che da 10 anni e 9 mesi danno vita alla minuscola rivista che LO SCAGNO pubblica ogni cambio di stagione. Compreso il vocabolario etimologico, che a trovarne un altro, in provincia, bisogna indossare gli stivali delle sette leghe. Alla terza sezione veniamo a conoscenza degli appuntamenti, delle stagioni teatrali e delle manifestazioni (con relative tabelle riassuntive) che riguardano il TEATRO COMUNALE. Passando sotto scopriamo che dietro le Compagnie Teatrali: Ra vigna ar Gèri, A. Bottazzi, il Carro di Tespi e dell’unico Gruppo Teatro Scuola della provincia, non c’è piantato soltanto un chiodo fisso… ma una notevole professionalità nella regia, nella scenografia, nei costumi e nell’arte della recitazione. Non poteva mancare, dati gli ultimi eventi accaduti, una sezione dedicata alla locale SCUOLA PRIMARIA. Leggendone con attenzione il P.O.F., le attività scolastiche e le programmazioni, si capisce il perché certe obiezioni di coloro che non mandano i bambini a scuola a Fresonara siano soltanto scuse. Naturalmente non mancano sezioni più rilassanti, quali quelle dedicate ai proverbi e ai modi di dire fresonaresi, ai cognomi dei bacecchi, alle statistiche, al meteo, e nientemeno che all’ora locale. Lo sapevate che quando in Italia suona mezzogiorno, in realtà a Fresonara sono soltanto le 11, 34 minuti e 44 secondi? Ecco spiegato, dunque, il motivo per cui Fresonara è sempre indietro: colpa del fuso orario, e non dei cervelli (fusi). Ed eravate a conoscenza che facendo un giro completo della Terra camminando dritti sul parallelo locale (44° 46’) si percorrono 28.440 Km? Un bello sconto rispetto ai 40.000 km dell’Equatore…
FEBBRAIO 2010
LE PAROLACCE A SCUOLA
- Maestro, i bambini di terza continuano a scrivere parolacce! - avvisa quello di quinta in vena di censore ad interim. Naturalmente grido. Non si scrive a scuola: ministro della pubblica istruzione! Quante volte lo devo ripetere! Ma questa volta, secondo il censore, la faccenda è più grave. Sul foglietto che scivolava di mano in mano sotto il banco, si legge chiaramente: “burocrazia”. -Burocrazia non è una brutta parola - affermo con l’aria che mi confà nell’occasione. - Ah, ecco il traditore! - incita lo stesso di quinta. - Ma come? Allora lei, maestro, non è dei nostri! Naturalmente chiedo spiegazioni. Dalle quali risulta che la Scuola Primaria di Fresonara è a rischio chiusura. Allora nasce il Comitato Civico. Che si inventa una strategia d’attacco contro la chiusura. Tutti sono chiamati alle armi. Così il paese è in stato di guerra. Per fermare l’emorragia di iscrizioni fuori plesso nasce un doposcuola che è come un secondo giuramento di Pontida. Le maestre del Gabbiano volano da un banco all’altro per portare serenità a bambini che, causa lavoro dei genitori, si trovano prigionieri in un’aula per 10 ore. E i bambini piangono. Solo che lo fanno quando i genitori li vengono a recuperare. Perché vorrebbero rimanere ancora in cella. Non è così brutto restare in prigione per 10 ore tutti i giorni con i propri amici e compagni di scuola. È una piacevole sensazione che non avevano mai provato. Così la bidella fa gli extra. E la cuoca cucina come per un battaglione di soldati. E la burocrazia cosa fa? Telefona! Non l’aveva mai fatto prima. Ma adesso telefona. Alla burocrazia non interessa lo stato di salute fisica e psicologica degli alunni. A lei interessa essere a posto. Con se stessa. E cioè: avere l’autorizzazione! Perché la burocrazia richiede sempre l’autorizzazione a se stessa! Il gioco è semplice. Nella scuola non funziona quasi più niente. Allora il minor richiede la delibera del major. Il quale major si rifà ad un major più major che deve riunirsi in assemblea e deliberare affinché il minor di mezzo possa autorizzare il minor più sotto ad iniziare un’attività che detto minor, in realtà, svolgeva già usando del semplice buon senso. Non avete capito niente! Nemmeno la burocrazia. E allora cosa fa? Ritelefona. E si vede benissimo, dal movimento labiale alla moviola, che il maestro, mentre si alza dalla cattedra per andare a rispondere, sta imprecando.
P.S. Domani rianalizzerò con calma le affermazioni del censore. Forse burocrazia non è una parolaccia in sé, ma certo ne fa nascere alcune che sono irripetibili.
GENNAIO 2010
5 ANNI, MA FA ANCORA LE ELEMENTARI
Settembre 1984. Il giovane maestro vede avverato un sogno: insegnare nel plesso del suo paese. Nelle stesse spoglie aule in cui era stato alunno delle elementari, sotto lo sguardo severo di docenti dei quali, adesso, era un collega. E allora il giovane maestro pensò: perché non creare un laboratorio teatrale scolastico per incamerare denaro da investire nell’acquisto di materiale didattico? Il progetto è chiaro: gli alunni seguono un vero corso di recitazione, le rappresentazioni si mettono in scena di fronte ad un pubblico pagante, con il denaro incassato si compra ciò che Direzione Didattica e Comune, sempre con le lacrime agli occhi, non avrebbero mai acquistato per mancanza di fondi. Nasce così il Gruppo Teatro Scuola, in un periodo in cui il teatro a scuola si chiama drammatizzazione. Ed infatti fu un dramma far capire al Circolo, ai genitori, al pubblico pagante (e mugugnante) che l’idea avrebbe anticipato di 25 anni la tanto odierna decantata autonomia della scuola. Con le scenografie e i costumi del Bosco dai rossi capelli, dal 1993 il Gruppo Teatro Scuola è una vera Compagnia Teatrale. Così, il Teatro dei bambini, per i bambini, recitato dai bambini, con le sue 20 pièces in repertorio replicate per 72 volte, ha portato nelle casse scolastiche il denaro per acquistare, in barba alle miserie statali, tutto quanto fa, del Gruppo Teatro Scuola, lo sponsor di se stesso, producendo al suo interno dalle scenografie, ai costumi, alle locandine. Senza contare fotocopiatrice, lavagna luminosa, videoproiettore, accessori per l’informatica, episcopio, fax, cordless, centinaia di libri per la biblioteca, apparecchi hi-fi, strumenti musicali, materiali per esperimenti scientifici, arte e immagine, attività motoria e di consumo. Seguono gli incassi devoluti in beneficenza ad Enti assistenziali ed Ospedali, facendo sempre partecipi gli alunni della concreta importanza della loro attività, che li inserisce, come modello da seguire, nella tangibile realtà in cui vivono.
P. S. Il non più giovane maestro si dimenticava di riferire che l’attività, completamente gratuita per le tasche delle famiglie, ha permesso anche ai bambini diversamente abili o con gravi difficoltà di apprendimento, di raggiungere risultati scolastici e di relazione sorprendenti. Dal Gruppo Teatro Scuola sono usciti alunni che oggi sono attori in filodrammatiche, musicisti professionisti, artisti in spettacoli itineranti e… un regista cinematografico.
NOVEMBRE DICEMBRE 2009
LETTERA APERTA AL MAESTRO DI FRESONARA
Carissimo signor maestro,
ben lo sappiamo: un pover uomo tu se'.
Ci scusi il tu, ma mica potevamo cambiare le parole del Poeta! E poi il tu adesso fa tendenza, nel senso che tendendo in generale verso la maleducazione, o come dicono coloro che non hanno letto l’articolo 30 della Costituzione, verso l’ineducazione, nessuno ci fa più la lamenta, e così anche noi piccoli “veniamo su proprio bene…”, nel senso ironico di come lo dice la nostra nonna…
Certo, in caso di incapacità degli adulti, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti… ma lei non ci ha mai portato a conoscenza di maggiorenni segnalati nel senso scolastico. Infatti, chissà perché, i segnalati siamo sempre e soltanto noi bambini… Considerandola, quindi, colpevole della situazione caotica in cui ci troviamo, abbiamo stabilito all’unanimità che quando noi ci comportiamo male a scuola, la colpa è sua. E soprattutto durante la mensa, perché è stato lei a scegliere una maestra così giovane che pur avendo le mani, non ha polso… In realtà, signor maestro, la lettera la volevamo scrivere a Babbo Natale, poi, dopo un breve consulto, abbiamo pensato di indirizzarla a lei. Tanto, ormai anche lei, quei pochi capelli che le sono rimasti, li porta dello stesso colore, e per quanto riguarda la barba, quella la fa venire a noi… Del resto, essendo il nostro maestro, è lei che ci deve delle spiegazioni. Così veniamo al fatto!
Ci faccia capire: lei che è così bravo a farci capire che gli Egizi erano quasi intelligenti come gli antichi Fresonaresi, come mai non riesce a farci capire (non segni le ripetizioni, sono volute) le motivazioni per cui gli adulti, che ci sgridano subito appena noi non rispettiamo una minima regoletta inventata da loro - verso la quale, tra l’altro, noi non abbiamo neppure avuto il diritto di esprimere il nostro eventuale assenso o dissenso come minoranza - a loro volta non rispettano la Legge? E poi lei si lamenta con quelli di quinta che non danno il buon esempio a quelli di prima! Ma cosa crede, signor maestro, che siamo stupidi? Giovedì scorso, quando lei ci minacciò di sospensione aggravata senza i benefici di legge per l’assembramento sedizioso sotto il banco in corridoio, noi non stavamo boicottando il materiale per gli esperimenti di scienze. In verità stavamo leggendo il libretto della Costituzione. Non che la cosa fosse stata premeditata. Soltanto lo avevamo scambiato per un famoso manualetto di Sigmund Freud. Così, all’affannosa ricerca di un motto di spirito dal contenuto inconscio… ci è caduto l’occhio sulla freddura numero 34 che recitava: “La scuola è aperta a tutti”. Caro maestro, sarà stato che era una freddura, sarà stato che in corridoio fa sempre davvero un po' freddo… fatto sta che sono venuti a tutti i brividi lungo la schiena. Ci rivolgiamo dunque a lei per avere una risposta a questa domanda: ma se la scuola è aperta a tutti, perché quella di Fresonara, invece, la vogliono sempre chiudere tutti? Il capoclasse, che legge molto, dice che la frase non è completa. Per risparmiare, come al solito, lei ha comprato un’edizione ridotta della Costituzione. Ma in quella integrale, lui è sicuro che ci sia scritto: “La scuola grossa è aperta a tutti”. E così, sarà stato sempre per i motivi legati al freddo, ma un altro brivido ci ha percorso la stessa schiena di cui in precedenza. Vorranno mica trasformare la scuola in un supermercato, che essendo grosso è aperto anche la domenica? Noi abitiamo in campagna e mangiamo la verdura dell’orto del nonno, e la nonna fa ancora la pasta in casa… Dunque non abbiamo bisogno di andare a riempire il carrello di porcherie anche nei giorni di festa. Ci fermiamo qui, perché lei, oltre ad essere un pover uomo, è anche un peggior giornalista, quindi le battute che le mettono a disposizione sono poche e sicuramente saranno già finite. Se non la licenziano dal giornale, vuole essere così cortese da darci una risposta sul prossimo numero?
Buongiorno, signor maestro. E Buon Natale, che ne ha tanto bisogno.
I suoi (purtroppo) alunni di Fresonara.
OTTOBRE 2009
A FRESONARA C’È UNA PIAZZA
A Fresonara c’è una piazza, come in tutti i paesi. Sulla piazza c’è un bar, come in tutti i paesi. C’è anche un parcheggio, in fondo a quella piazza sulla quale c’è un bar come in tutti i paesi… Quel che non c’è in tutti gli altri paesi è il Teatro Comunale. Compie, a ottobre di quest’anno, 73 mesi, e 104 manifestazioni al suo interno, tra cui 54 spettacoli teatrali. È bello, il nostro Teatro Comunale. Accogliente nella porpora dei suoi tendaggi e di quel sipario che quando si apre svela la scatola magica di un palco attrezzatissimo. Tutte le Compagnie vengono volentieri a calpestarne la morbida moquette. Così, anche per il 2009-10 potremo godere di una nuova Stagione Teatrale, la quarta consecutiva, con tanto di abbonamenti e posti prenotati. Come in città! Sotto la direzione di Paolo Scepi, che ne cura con sapiente maestria il cartellone, la stagione si aprirà venerdì 30 ottobre con la Compagnia Teatrale Fubinese, che presenterà SPOGLIATOIO, commedia scritta e diretta da Massimo Brusasco. Sabato 14 novembre sarà la volta della Compagnia Teatrale Ernesto, con DIAMOCI DEL LEI, di E. Bombino, regia di M. Zanutto. Sabato 28 novembre Lillibo Teatro in scena con NATALE AL BASILICO, di V. Di Piramo, diretto da Lilly Bollino. Sabato 12 dicembre sarà presente la Compagnia Nuovo Palcoscenico, con COSÌ È SE VI PARE, di L. Pirandello, regia di G. Costantino. Venerdì 12 febbraio 2010, la Compagnia Teatrale A. Bottazzi inaugurerà l’anno nuovo con la commedia dialettale A RA SPOSA E A RA CAVÄLA, di Anonimo, con rielaborazione e adattamento di Domenico Bisio. Chiusura da ricordare, sabato 20 febbraio, con la Compagnia Teatrale Dispari, sul palco con SALOMÈ, di O. Wilde, diretto da Angelo Repetto.
Gli abbonati potranno gustarsi uno spettacolo gratis. Chi prenota in Comune, allo 0143 480166, potrà richiedere il rimborso del biglietto in caso di impossibilità ad assistere allo spettacolo. È un generoso padrone di casa, il nostro Teatro…
Ma a Fresonara c’è anche una festa che altrove non c’è. L’ha inventata Elisabetta Siri. Si chiama il COMPLEANNO DI FRESONARA, a cura del Comune e dell’Associazione Culturale Lo Scagno: 37 manifestazioni culturali completamente gratuite dal 2001 ad oggi per riportare alla memoria, tutti gli anni, la misteriosa data di fondazione del nostro paese. Quest’anno: il 9 ottobre grande Concerto con le fisarmoniche di Gianluca Campi e Carlo Fortunato in omaggio al M° Don Angelo Fasciolo; domenica 18 la 2ª Festa d’Autunno e venerdì 23 ottobre, al Teatro Comunale, alle ore 21, Processo all’Autore: alla sbarra il giornalista-scrittore-poeta Federico Buffoni. In attesa della sentenza i sentieri musicali di Carlo Fortunato.
Un’altra cosa c’è soltanto a Fresonara: il Gruppo Teatro Scuola. Venticinque anni per un totale ininterrotto di 68 rappresentazioni. Ma di questo ne parleremo la prossima volta… che se la Repubblica si dà delle arie perché promuove lo sviluppo della cultura, questo lo facciamo anche noi, senza chiedere soldi alla Repubblica, che così ne ha di più da sprecare altrove.
MAGGIO 2009
QUELLI CHE… NON DICONO PER CHI VOTANO
Ve la ricordate la canzone di Enzo Jannacci: Quelli che…? Ebbene, questa è la seconda puntata. Il bello della prima è stato che molte persone mi hanno fermato per strada per svelarmi che si erano divertite a leggere l’articolo dedicato a: quelli che… di mestiere ti fermano per strada, oh yes! Appena in tempo per l’ultimo sorriso. Adesso sono tempi duri nei nostri paesi. Non ci si saluta più perché si è di liste diverse. Si pone la massima attenzione a cosa si dice e se si accenna qualcosa, lo si confessa soltanto a persone super fidate. Naturalmente, la prima cosa da fare è non rivelare in alcun modo per chi si vota. Non si sa mai… Magari vincono quelli là… Perché in questi giorni, gli avversari politici sono… quelli là… Poi bisogna stare attenti anche ai minimi particolari persino quando si parla di calcio. Molte parole di questo strano sport hanno doppi sensi ed estrapolate dal discorso, possono essere interpretate con riferimenti chiaramente politici. Alla radio un tifoso ha sentito il cronista intervenire dicendo che:“Camoranesi è sceso sulla fascia destra e stringendo verso il centro ha crossato a favore del compagno di sinistra”. Ma lui ha subito intuito l’allusione spudoratamente partitica:“Per Camoranesi intendeva il candidato sindaco della lista di destra, il quale attraverso patteggiamenti con il centro, si è schierato con il candidato a sindaco della lista di sinistra, che per l’appunto è un compagno!” Bip… bip… sta a vedere che stavolta, con una tattica così opportunistica, la Juventus, se non vincerà la champions nelle Europee, di sicuro disputerà il ballottaggio nel torneo delle Provinciali… Naturalmente sono tempi in cui tutti i partiti vogliono migliorare, rinnovare, correggere. Non mi ricordo se nella canzone di Jannacci ci siano: quelli che… vogliono cambiare, oh yes! Ma se ci sono, io aggiungerei, subito dopo, per par condicio: quelli che… sarebbe meglio che cambiassero loro, oh yes! Sono anche tempi di domande. Quelle che nessuno si pone: “Ma lo sono intelligente?” e quelle che si pongono tutti: “Ma quello lì, da che parte sta?”. Per questa seconda domanda io non faccio perdere tempo a nessuno. In riferimento alla prima, la chiave della risposta l’ho già pronta da riconsegnare. Prima, però, ai soliti bistrattati alunni della Scuola Primaria posso annunciare che avranno l’onore di mettere in scena, domenica 31 maggio, la CENTESIMA rappresentazione che si svolgerà nel Teatro Comunale! Oh, yes, cari bambini, voi siete quelli che… al pari tempo, sono fortunati e disgraziati! Fortunati perché non votate, per cui nessuno vi fermerà per strada. E disgraziati… per lo stesso motivo, perché, non votando, per lo Stato valete poco più di 5 euro a testa e vi chiudono le scuole in faccia per i pasticci che hanno combinato gli adulti. Il bello è che se la marachella la combinate voi, vi castigano; se il crimine lo commettono gli adulti, vi danno d’intendere che la matematica non è un’opinione. E invece la matematica è un’opinione e la mia è che, nella trottola dei giochi di parola, certe riforme siano da… riformatorio. Oh yes!
APRILE 2009
QUELLI CHE… TI FERMANO LUNGO LA STRADA
Ve la ricordate la canzone di Enzo Jannacci: Quelli che…? Tra le decine di ipotesi ne risalta una che dice: …quelli che fanno un mestiere come un altro, oh yes! Ebbene, tra questi, ce n’è uno che richiede un’approfondita specializzazione: il mestiere di fermarti per strada. O al campo sportivo. O al cancello della scuola. Detiene il record dei lavoratori più assidui. Non sono mai in sciopero. Non sono mai assenti ingiustificati. Loro ci sono sempre. Arrivano in netto anticipo sul luogo del lavoro. E sul datore di lavoro, che sarebbe la vittima di turno. Si sono preparati la puzza sotto il naso da casa. Ne hanno discusso con parenti ed amici impiegati nella stessa attività, i quali hanno suggerito sguardo fiero, linguaggio senza pietà e atteggiamento duro. Li noti subito dagli occhi stralunati, le labbra strette. Normalmente sono brutti, dentro e fuori. Mentre gli altri salutano cordialmente, questi rimangono impassibili. Aspettano che tu ti giri di 62 gradi per assalirti alle spalle. Esattamente nel momento in cui la tua coda dell’occhio li perde di vista, esclamano: - Ah! (come se fossero lì per caso e per caso fosse loro venuto in mente che sono cretini) scusi, volevo dire… E ti vomitano addosso tutto quanto fa emetico. Naturalmente trovano coincidenze col prosieguo della canzone. In effetti sono… quelli diversi dagli altri, oh yes! Tanto diversi che nel giro di pochi secondi cadono in deleterie (per loro) contraddizioni e non riuscendo più a raccapezzarsi nelle proprie, vorrebbero essere… quelli che ti spiegano le tue idee senza fartele capire, oh yes! Negli anni di goliardia, in queste occasioni sapevo improvvisare bene la parte della spalla. Tenevo bordone mentre si sfogavano, poi sostenendo le loro ragioni, indicavo nel vicino di casa, nel sindaco, nei politici che sono tutti ladri e nel pullman in ritardo, i colpevoli certi dei loro cagionevoli problemi. Così finiva che mi ringraziavano per i consigli e giuravano sulla suocera che avrebbero vendicato gli affronti subiti. Alla prima occasione avrebbero fermato per strada chi di dovere e… se per caso la colpa fosse stata dell’Arfea, si sarebbero buttati anche sotto la corriera! Invecchiando non ho più voglia di ascoltarli. Sono di una monotonia estenuante. Però li benedico. Grazie a loro ho scritto decine di commedie, con relativi aggiornamenti e rielaborazioni. Ho potuto mettere in scena tutti i copioni possibili su questo strano mestiere. Purtroppo, ancora oggi, al di là dello specifico argomento, seguono sempre l’antica scaletta. Così, per non annoiarmi mentre rimettono, ripasso quanto ho guadagnato, grazie a loro, in diritti d’autore. Ciò che sfugge alla mia contabilità è se hanno le ferie pagate (e se le hanno, chi fermeranno sulla spiaggia, tanto per restare in esercizio); se, oltre lo sguardo, anche il lavoro è in nero e se c’è un’età pensionabile o se continueranno a tempo indeterminato.
Al contrario ci sono coloro che non escono di casa nemmeno durante il terremoto. Dal cortile fermano gli incauti passanti a spiegar loro per chi devono votare alle prossime Amministrative. Parlano sottovoce (non si sa mai…) e tengono sotto controllo, con movimenti rapidi del collo, tutta la via (non si sa mai…) Ma dir di più non so, perché ho sempre rifiutato i copioni dei loro teatrini. Però, credetemi, quelli che fanno più tenerezza, sono… quelli che non c’erano [ma sanno] oh yes!
MARZO 2009
SI CHIAMA COMUNALE, MA NON È UN TEATRO
A Fresonara c’è il teatro. Si chiama Teatro Comunale. È nato, o se volete, è rinato, dopo 40 anni esatti di oblio, l’8 settembre del 2003. Ad oggi è stato sede, nei suoi 66 mesi di vita, di 93 manifestazioni di vario genere, tra le quali 49 rappresentazioni teatrali portate in scena da 26 Compagnie diverse. Se facciamo una media di soltanto 50 persone per manifestazione, al suo interno si sono già assiepati 4.650 spettatori: 6 volte e mezzo gli abitanti del paese. Il Gruppo Teatro Scuola di Fresonara e i Dispari di Alessandria sono primi, a pari merito, con sei pièces a testa portate in scena. Tutto questa prefazione per arrivare ad una conclusione che in provincia ci invidiano in parecchi, e cioè che: il Teatro di Fresonara… non è un teatro! Il fatto è che il nostro, è molto più di un teatro, anzi, è qualcosa che implica un concetto completamente diverso. I teatri sono tutti uguali. Si dividono in due parti: al di qua e al di là del sipario. Da una parte c’è un certo numero di poltroncine di velluto rosso, e dall’altra si apre la scatola magica col suo predominante colore nero. Da una parte ci si siede e se si è fortunati si applaude. Dall’altra si sta in piedi e se si ricordano le battute, si recita. Che noia! Quella costruzione che dà sul rosa in Piazza Don Orione, invece, non è un teatro, ma la casa di chi vuole fare teatro. In altre parole è la casa di chi, volendosi divertire con l’arte di Melpomene e di Talia, ha la possibilità di appropriarsene per un certo periodo, farla sua, arredarla a piacimento così come si fa nella propria abitazione ed esprimere, recitando, ballando, cantando, i suoi sentimenti, i suoi capricci, il suo genio, le sue qualità, i suoi messaggi. Lo può fare da solo, in compagnia, nel silenzio della platea vuota o di fronte ad un pubblico plaudente. Durante una prova o alla prima assoluta. Il risultato finale è che il teatro non è più la rappresentazione della vita, ma un momento di vita. Il tutto al prezzo di un sorriso e una stretta di mano. A sua volta il pubblico, prima di entrare, è invitato a porsi la domanda: “Chi c’è stasera in platea?”. Avete letto bene, ho proprio scritto: platea. Sì, perché chi viene nella casa di chi fa teatro, non deve preoccuparsi di chi sta sul palco. Deve essere contento che seduto di fianco a lui ci sono quel signore e quella signora che assomigliano entrambi ai suoi vicini di casa. Proprio quei due vicini che da mesi non ha nemmeno il tempo di salutare al mattino per via dei turni sfalsati e la sera intuisce essere sul sofà a godersi la televisione attraverso i lampi di luce blu che escono dai tagli delle persiane obbligatoriamente chiuse. Chiuse, perché la sera non si dà confidenza a nessuno, e una persiana aperta potrebbe indurre qualche importuno a voler ricambiare un sorriso dal vetro. C’è Scherzi a parte stasera, ma domani non saranno uno scherzo le otto ore in ufficio a fianco del collega nato per far la parte dello scocciatore assillante. Nella casa di chi vuole fare teatro, invece, di fianco c’è l’occasione per offrire un sorriso e un caffè durante l’intervallo. O di farseli offrire. Quanto tempo era che non vi accadeva?
FEBBRAIO 2009
MANCA SEMPRE UN PEZZO: LA TESTA!
Teatrini e siparietti
Mi verrebbe voglia di cominciare l’articolo con la frase: ”Non capisco come mai…”. E invece, capisco benissimo! Ha ragione il capoclasse di quinta: quando bisogna agire per un traguardo importante, non si deve far affidamento sul compagno di banco, ma collaborare con persone che lavorino con professionalità. Gli amici possono essere anche bravi, volenterosi, carichi di passeggero entusiasmo… ma, appunto per questo, generalmente non in grado di pianificare risultati a breve, medio e lungo termine. Questi concetti sono, invece, già insiti in chi, pur non svolgendo quella determinata attività per lavoro, manifesta particolari attitudini con capacità professionale. Dove sta la differenza tra l’amico e il professionale? Sta nel concetto di programmazione. L’amico aggiusta la porta, sistema un cardine, dà l’impregnante… ma non arriva a porsi il problema che in caso di incendio, da quella porta devono uscire 100 persone. Il professionale, invece, oltre a conoscere già per conto suo le misure imposte dalla legge sulla sicurezza, dispone fin da subito le porte di maniglia antipanico. Più di dieci anni fa nacque ad Alessandria il Forum delle Attività Culturali. Quanti amici! Chiedemmo subito che si creasse un’Agenzia che fungesse da centro coordinatore per tutti coloro che lavoravano nel teatro. Rischiammo il linciaggio. Finita la torta… gli amici sparirono! Nel 2005 a Novi Ligure nacque il Forum dello Spettacolo. Quanti amici! Ributtammo sul tavolo la nostra richiesta, che a dir la verità da alcuni fu recepita, ma non messa in atto. Risultato: finito lo scoop politico, gli amici si dissolsero, l’alleanza finì e decine di Compagnie Teatrali ricominciarono a lavorare in scantinati, senza collegamenti, senza quello spirito di corpo che dà forza di fronte a chi governa. Così, si pensò di rimediare inventando strampalate occasioni di recitazione per attirare più figli di Talia possibili e incassare denaro in cambio di nessuno sbocco professionale. Adesso, l’ultima novità: chi fa teatro, invece di imparare il copione, deve imparare a navigare nel web, per contatti virtuali, dove il rapporto affettivo con l’altro ha la stessa intensità emotiva di quella che si crea all’ascolto della sensuale voce su disco vodafone. E siccome anche nel web l’importante è apparire, ognuno mette in bella mostra se stesso con filmati, fotografie, commenti dove è obbligatorio far vedere che prima ci si mette i pantaloni e poi le mutande sopra. Naturalmente la cosa non è proibita. Soltanto bisognerebbe saper spiegare a se stessi quali benefici per il Teatro, porterà, nel tempo, il conciarsi così. Nascono siparietti come micosi sulla pelle, con il risultato che, molti mariti di Talia, mentre affermano di voler abbattere la quarta parete come fosse il muro di Berlino, in realtà innalzano fili spinati tra loro per gelosia e per il cattivo uso di rubacchiarsi le idee e i figli di Talia, la quale, ultimamente, è sempre in dolce attesa.
DICEMBRE 2008
INTERVISTA ALL’INTERVISTATORE
Intervista! Intervista! Intervista! Al grido di guerra non si sottrae più nessuno. Tutti intervistano tutti. Da anni mi sento rivolgere l’invito a porre domande al personaggio di turno. Non l’ho mai fatto e spero non mi accada mai. Soprattutto quando mi si chiede di intervistare burloni da paese, schiamazzatori diurni, pifferai ai quali, di magico, manca soltanto una bacchetta che li faccia sparire. Anch’io sono stato intervistato, qualche volta. Ma ho accettato soltanto quando si trattava di giocare con l’ironia e quando l’intervistatore era così intelligente da non prendere troppo sul serio soprattutto le sue domande. Del resto cosa avrei io, di così importante da dire, che non sia già stato riesumato da qualche necroforo prima di me? Sicuramente ci sono persone che meritano di essere ascoltate, perché dalle loro risposte si possono trarre consigli utili a riportare nel giusto equilibrio nostri atteggiamenti e convinzioni che, in effetti, non sono un gran che. Ma la maggior parte delle chiacchierate servono a tappare buchi di tempo e di spazio. Quando, però, cado in tentazione, nel segreto della mia mansarda dico niente a nessuno e intervisto me stesso. Così spesso mi sono chiesto se classificare sempre negativamente i fatti di oggi a paragone con quelli dei tempi andati, sia intelligente. Io ho vissuto i fatti di altri tempi, per esempio ricordo benissimo alcune vicende nate nel mio paese intorno alla nomina del nuovo parroco dopo la morte di Don Contardi. Alla domanda:- Cosa te ne pare? - rispondo a me stesso che ritengo la cretineria di allora uguale a quella attuale riguardo a… a… a una cosa che adesso mi sta sfuggendo. Ma non importa, intanto oggi ho tempo, per cui posso continuare l’autointervista più tardi. Intanto, hanno sempre tempo, i maestri. Per nove mesi fanno niente e ne hanno tre di vacanza. A proposito, questa battuta, è soltanto una spiritosaggine? No, cari i miei tre lettori, questa è una cattiveria spacciata per facezia, carica di invidia e di incapacità a comprendere che il lavoro si misura soprattutto in qualità e non soltanto col numero di rotoloni di maggengo. Rimanendo in argomento, ho continuato e alla domanda:- Cosa ne penso di quei genitori che portano i propri figli in altre scuole? – mi sono risposto che prima di tutto uno dovrebbe amare il proprio paese, ma poi, guardando il calendario, ho deciso di terminare lì l’intervista. Altrimenti avrei dovuto passare i tre mesi di ferie a spiegarmi cosa vuol dire amare il proprio paese e poi… una valanga di altre cose, tra le quali una che ormai non è nemmeno più a norma. Avrei dovuto rovinarmi tutte le vacanze seduto ad intervistarmi. In fin dei conti esse durano soltanto novanta giorni ed io, invece, voglio approfittarne per riposarmi in vista degli altri 275 in cui farò niente. Che pasticcio, l’intervista, specialmente quella che mi farà mia moglie appena arriverà a casa e mi chiederà, tutta sorridente, cosa ho scritto di bello…
OTTOBRE 2008
LA QUINTA STAGIONE: IL TEATRO
Una stagione all’equatore. Due ai tropici. Quattro nella zona temperata e… cinque a Fresonara. Tolte quelle che avete imparato nelle elementari, la quinta si chiama: Stagione Teatrale. La tradizione del palcoscenico da noi è antica. Ancora tante persone ricordano di avere assistito (o recitato) alle comiche e ai drammoni anteguerra che la Compagnia, guidata da Don Contardi, metteva in scena sulle stesse assi di quello che ora è il Teatro Comunale. Quando leggerete queste righe, la prima pièce dell’attuale Stagione, quella di sabato 18 ottobre con la Compagnia Teatrale Dispari in: La Serra, di H. Pinter, regia di Sir Stewart Summers, purtroppo sarà ormai passata. Ma farete comunque in tempo ad assistere alle altre cinque in cartellone. Sono spettacoli con i migliori attori non professionisti che la provincia di Alessandria possa garantire. E soprattutto garantisce per loro la scelta del programma, effettuata, come sempre, dall’attore-regista Paolo Scepi, uno che di teatro se ne intende sul serio. Dunque sarà di venerdì 21 novembre l’esibizione della Compagnia Teatrale Fubinese, in: Non è mica Zelig, scritto e diretto da Massimo Brusasco. Sabato 29 novembre la locale Compagnia Teatrale Il Carro di Tespi presenterà: Il testamento del ciabattino, con Alessandra Colombo, Giovanna Perlongo, Valentina Ciampi, Franco Gabriele, Gerardo Melucci, Marco Ferrari. Sabato 13 dicembre La Compagnia Danzi Spalla porterà in scena: Vuoti a Rendere, di Maurizio Costanzo, con Sergio Danzi, Ileana Spalla. Passate le baldorie di Capodanno, il 2009 ci regalerà, sabato 24 gennaio, il Teatro Distinto, con Daniela Tusa in: L’analfabeta, di A. Kristof, regia di Daniel Gol. E per finire, sabato 7 febbraio, La Compagnia Max Aub presenterà: Crac, di Massimo Brioschi, regia di Luigi Di Carluccio. I posti della bomboniera sono soltanto 100, ecco perché si suggerisce sempre di prenotare presso il Municipio di Fresonara. Basta una telefonata al n. 0143/480166 in orario ufficio.
Versiamo lacrime per chi non ha assistito, in precedenza, a: Pro-getti di pro-fumo e La luna di traverso del Gruppo Teatro Scuola, seguito da: Processo alla Strega del Carro di Tespi, ma spesso non si approfitta di occasioni delle quali poi ci si pente. Per non parlare del concerto dedicato al M° Don Angelo Fasciolo. Tenetela d’occhio la bacheca del Teatro Comunale di Fresonara! Non fate come quelli che in alternativa si mordono le unghie. È tutta gelosia!
SETTEMBRE 2008
SOLONI E SALAMONI
“Non è rilevante se due o tre Soloni arricciano il naso; è preferibile farsi capire da molti”. Kircher.
Cari giovani passeratesi di 15 anni, ma anche di 18 e 24, le carte non predicono per voi un roseo futuro. Vi hanno tolto il cortile per farvi credere che vostro sarebbe stato il mondo. In realtà i tarocchi vaticinano che non sarete padroni nemmeno di Passeraria. I vecchi soloni hanno incamminato il solito discorso pedagogico senza chiedervi quali siano i vostri interessi, i vostri ideali, le vostre passioni. Per cui dovrete, ancora una volta, inchinarvi alle loro convenzioni, nonostante l’antico ammonimento di Giorgio Gaber: “Non insegnate ai bambini la vostra morale. È così stanca e malata che potrebbe far male...” Certo che ai tempi di questi elucubratori dell’Idea, era tutto un ideale! Difatti, dopo 40 anni ribisticciano sul ‘68! Senza contare il nonno, che ancora adesso divide partigiani e fascisti in bravi e cattivi. Quale vostro diritto a ruolo attivo di giovani cittadini di Passeraria vi sarà dato di godere della musica di 70 anni fa! Lo so che a voi piace lo skate punk e lo suonate con il vostro gruppo, ma gli Ideali occludono gli antichi orecchi al vostro frastuono. E poi, ad agosto, o forse a giugno, ma va bene anche luglio... invece di andare in camporella, vi faranno gustare un bel film al cineforum!Naturalmente vi porteranno alla conferenza sull’art. 4 della Costituzione. Ma facendo teatro e suonando nel vostro complesso, voi non concorrete già al progresso spirituale della società? E per quanto attiene al progresso materiale, l’inflazione non è di sicuro colpa vostra... Riguardo la stessa Passeraria, state attenti: a volte esiste, a volte non esiste, a volte per 30 minuti esiste un po' sì e un po' no! Come a ZELIG. Sono diventati vecchi ingarbugliando i maneggi per maritare la partitica (che di mestiere fa la prostituta, perché ci vanno tutti a letto insieme, pur di stare al potere), con la politica, cioè la capacità di amministrare con coscienza la cosa pubblica per il bene dei cittadini. Naturalmente il concorso letterario sarà a livello nazionale, così il primo premio lo vincerà un solone (o un salamone) di una qualche lontana esperica località e la spinta per avvicinarvi ad Euterpe sarà rimandata a data da destinarsi. Concentrandomi ancora sui tarocchi vedo, purtroppo, tante poltrone, ma pochi uomini di cultura, intesi come capaci di accettare il fatto che i giovani di oggi, per fortuna, sono diversi da loro. Naturalmente io saprei cosa fare, ma ho finito le mie righe a disposizione. Non c’è più spazio. Per fortuna a Rondinaria queste cose non succedono.
LUGLIO 2008
RONDINARIA: E PER CHI?
Ore 17.30. La differenza di temperatura tra l’esterno e l’interno è di almeno 20 gradi. Nella saletta consigliare ci sono più coppe che persone. Di giovani seduti tra il pubblico nemmeno l’alito amaro di una birra. Ma i robusti salomoni ondulati a ferro di cavallo non hanno in scaletta argomenti per loro, per cui i giovani hanno fatto bene a stare al bar a bersi la bibita di cui sopra. Lo scopo principale dei salomoni è dimostrare la propria tesi: Rondinaria è esistita. Anzi, no, Rondinaria non è esistita! O forse… un po' è esistita e un po' no… così si aumenta la suspance e ci si aggiorna la prossima seduta, dove dietro ai tavoli a ferro di cavallo ci saranno seduti altri salolomi e al posto dei giovani tante comode sedie vuote. Ma dove cavolo vanno i giovani? Ma possibile che quando si fa qualcosa, loro non ci sono mai? Eppure, se sono fatti anch’essi di materia, pur non essendo tutta grigia, da qualche parte occuperanno dello spazio fisico! Beh, per esempio, al Teatro Comunale di Fresonara tutte le settimane sono puntuali a far le prove per recitare. Duecento metri più in là alcuni di loro si danno spadate sulle mani per partecipare ai gruppi allegorici nelle feste medioevali. Al torneo delle contrade non ne mancava uno. E poi, sempre a Fresonara, molti suonano e altri ballano. Tenendo in considerazione che il mio è l’ultimo paese del mondo, chissà nelle altre località… Eppure, cari giovani, mi sa che i vecchi, che non sono diventati tali per niente, ne abbiano inventata un’altra per raccontarsela con lo slogan: Rondinaria, la città dei paesi! La città dei paesi… di chi? Dei salomoni, naturalmente. I quali, non possedendo più la giovanile fantasia di sapersi almeno creare castelli in aria, vivono sulla terra portandosi appresso le loro macerie. E così amano ripetere che una volta era meglio, e che voi, giovani moderni, siete senza interessi, senza idee, e non ve ne frega niente. Così alle loro riunioni invitano l’assessore e il professore, che sono pezzi grossi e fanno notizia. E l’assessore, naturalmente, porta i saluti dell’Amministrazione Comunale, in particolare del sindaco che, guarda caso proprio quel giorno, non è presente per una cena (di lavoro) e anche lui, vista l’ora, ha urgenza di fuggire per un’altra riunione… Non riesce a far di meglio il professore, che promette di essere breve, e dopo tre quarti d’ora durante i quali gli unici che lo hanno ascoltato sono i suoi due orecchi, conclude divorandosi le 32 pizzette del rinfresco. I lavori si concludono con il calendario delle manifestazioni: i tamburi etruschi, l’esposizione delle bighe del Peloponneso, i danzatori del Kazakistan. Chiedo: ma in tutta Rondinaria, non c’è uno che sa suonare la chitarra? Tre che possiedano ancora una vecchia Topolino, una 600 Multipla, una Lambretta del ’62? Possibile che non si trovino quattro coppie che non sappiano ballare decentemente un tango? E poi ci sarebbero sempre i giovani… Ma i giovani moderni, sono senza interessi, senza idee, e non gliene frega niente. Lo so, me lo avete già detto. Eppure, insisto a ripetere che a Fresonara, la quale rimane pur sempre all’ultimo posto nelle classifiche, ci sono giovani che suonano, che organizzano tornei, che imparano a darsi spadate sulle mani… Meglio le macerie. Anche politiche, se fosse. Così si chiede ai sindaci dei Comuni di Rondinaria di associarsi. Associarsi in che cosa? Se c’è qualcuno che si illude di poter davvero assistere, durante la propria vita, ad una collaborazione intercomunale proficua sul controllo del territorio, sull’istruzione, il turismo, il tempo libero, l’assistenza per gli anziani, l’edilizia… che veda d’accordo le amministrazioni di una decina di paesi che non comunicano tra loro nemmeno ancora via e-mail, mi venga a trovare. Gli spiegherò qual è la strada per far nascere davvero Rondinaria. E la strada non passa dalle macerie in cui i governi hanno ridotto i municipi, ma dalla fantasia dei giovani.
GIUGNO 2008
PROMOSSO E BOCCIATI
La mattinata era di quelle che adesso non ci sono più. Perché a quei tempi nessuno parlava di effetto serra, per cui l’aria non ne sapeva niente e l’atmosfera era sempre tersa. Anche il tabellone appeso alla bacheca della scuola media era chiaro come quel cielo di giugno. Promosso… bocciato… bocciata… bocciata… bocciato… Se fuori era estate, dentro quel corridoio, che sapeva già di pulizie per le vacanze, era una nera tempesta di voti che sembravano le moderne formazioni delle squadre di calcio: 4,4,2… 5,3,2… 3,4,2,1… Solo il primo nome in alto era seguito da cifre che superavano il sei. Ma lui era il figlio della maestra… per forza che rimaneva sempre promosso.
Ora si trattava di superare il momento più tragico. Bisognava partire da Basaluzzo in bicicletta e arrivando a Fresonara, attraversare tutto il paese per raggiungere il proprio cortile senza correre il pericolo di incontrare qualche rompiscatole, soprattutto di sesso femminile, che ponesse la fatidica domanda: “Allora, com’è andata? Sei promosso?”. Non c’era l’effetto serra, ma le curiosone inquinavano la privacy già da parecchio. “Si potrebbe passare dai campi”. L’idea era buona. Da lì, risalendo la cròsia alla spicciolata, sarebbe stato più facile raggiungere la propria dimora. “Io passo dall’Acquanera”, disse il figlio della maestra. Facile, decidere, per il figlio della maestra. Lui era promosso. Passando di lì lo avrebbero visto tutti in paese, e il sorriso dei suoi occhioni sarebbe stata la risposta alla fatidica domanda.
Arrivato alla curva del Biarót il plotone dei bocciati si fermò. Bisognava escogitare una strategia tattica per gli ultimi metri, quelli più pericolosi. Scesero dalla bici proprio mentre in senso contrario un pallone di cuoio stava arrivando in bici dal paese. “Giochiamo?” Il maggengo era tagliato di fresco, e il prato era un invito a rimandare di qualche ora il coraggio di svelare ai genitori il triste verdetto. Quella sarebbe stata, in ogni caso, una giornata da castighi, per cui, ritardarne la partenza, significava accorciarne gli effetti. Le ragazzine non erano molto competitive, ma vista la situazione, non c’era tanto da fare i pretenziosi. E poi, quando gli avversari attaccavano, la tattica andava a come piazzare la difesa e ci si dimenticava di quell’odore di alcool del corridoio. I gol superarono di molto, da entrambe le porte, i numeri del tabellone della scuola… finché, marci di sudore, suonarono i rintocchi del mezzogiorno. Si mangiava a mezzogiorno, quando non c’era l’effetto serra, e dunque era meglio andare a casa, se si voleva evitare una punizione doppia.
Erano le 12 e 15 minuti quando il figlio della maestra, dopo quattro ore dalla partenza, rientrò in cucina. La maestra, cioè la mamma, lo aspettava ai fornelli: “E allora? Come mai hai impiegato così tanto tempo? Non ci sono mica brutte sorprese?”. “Figurati, mamma… Tutti sette e otto… Promosso!”. Le tagliatelle col sugo erano da scarpetta finale, ma il figlio della maestra, più che mangiare, quel mezzogiorno bevve un’intera bottiglia di acqua e vischy. L’aveva fatta ai cento all’ora in bicicletta da Basaluzzo a Fresonara, aveva evitato le comari di Via Marconi e passando dalla Ciapela era arrivato alla canonica. Il pallone di cuoio del parroco era sempre al suo posto: nel portaombrelli appena entrando. Sparato giù dalla cròsia prima che il plotone mettesse in atto la subdola tattica, e poi… due ore di partita senza bere un goccio d’acqua. Ma quelli sul tabellone erano i nomi dei suoi amici e quell’ecatombe di bocciature con relative faccine smorte non era certo motivo di allegria, nonostante, lui, il figlio della maestra, fosse rimasto promosso. Bisognava cercare di sollevare il morale di quei ragazzini che con lui condividevano ogni giorno le rincorse in Montecaprato e le arrampicate furtive nei frutteti di padroni che con le mani non scherzavano… Cosa c’era di meglio che una partita a calcio? E anche per le ragazzine, non era mai troppo tardi per imparare a toccare il pallone solo con i piedi. Quel pomeriggio, certo, il paese sarebbe stato un deserto, ma lui aveva da fare per conto suo. Bisognava trovare il sistema per rimettere il pallone al suo posto senza che il parroco se ne accorgesse e poi… Poi c’era l’albero delle ciliegie del Lombrino, ma quello era un segreto che non poteva svelare nemmeno ai migliori amici.
MAGGIO 2008
IL MESE DEGLI ASINI
Quando ero un bambino, una signora mi chiese in quale mese fossi nato. Alla mia risposta, esclamò: “Ah, il mese degli asini!”. Non mi offesi per l’affermazione, perché pensai che la signora si riferisse a qualcosa che non aveva a che fare con me. Erano comunque i tempi in cui in ogni aula c’era il banco dell’asino; si giocava a asino che vola; si ripeteva il proverbio: in mancanza dei cavalli, trottano gli asini. E poi io ero il primo della classe, il più bravo a calcio e il migliore nel lanciare lontano le figurine a testa o croce. Così mi sono dato delle arie e sono diventato maestro. E tutti in paese mi chiamano maestro. Invece sono un cretino. Dovevo seguire il consiglio della signora. Visto che ero nato a maggio, dovevo fare l’asino. Oggi, invece di subire la mortificazione delle riunioni del POF, vanterei, al contrario, la Carta etica dei diritti dell’asino, secondo la quale sono stabilite le modalità di una corretta relazione fra uomo e asino, preservandone il valore storico, sociale ed economico e la espressione etologica. Se l’etologia è la materia che analizza l’atteggiamento degli animali nel luogo dove vivono, riferita al maestro essa analizzerebbe il comportamento dell’insegnante nella scuola. In effetti, c’è un filone dell’etologia che, considerando l’uomo come una specie animale, studia i comportamenti umani facendo riferimento non soltanto a fattori di origine sociale e di tipo cognitivo e psicologico, ma anche a fattori biologici. Questo filone è detto, appunto, etologia umana. Ora voi penserete che sto scherzando. Ed invece, la Carta dei diritti dell’asino esiste veramente. La trovate su numerosi siti Internet. Ve ne cito uno tra i tanti: www.raglio.com. Leggerla tutta potrebbe diventare noioso. Allora vi suggerisco un passatempo divertente: mentre la sfogliate, sostituite la parola asino col termine maestro. Proviamo a scorrere qualche articolo. Iniziamo dalla Premessa: “L’asino (= maestro) è stato storicamente in rapporto domestico con l’uomo. Questa combinazione ha rappresentato uno dei fattori che hanno determinato lo sviluppo economico dell’umanità, ma talora ha rappresentato una forma di bieco sfruttamento delle sue doti di adattamento alla fatica e di sopportazione. È necessario promuovere un rapporto eticamente compatibile con l’asino (= maestro)”. Nel Diritto ad una considerazione sociale, leggiamo che “l’asino (= il maestro) pur protagonista dello sviluppo delle civiltà, spesso è stato ripagato da concezioni sbagliate e di comodo. Ne è nata una propensione al dileggio e all’insulto. L’asino (= maestro) deve essere rispettato per la sua indole buona, socievole e tranquilla, per il suo carattere deciso e guardingo e per tutti i lati caratteriali del suo comportamento sociale. Non deve essere insultato e/o paragonato a particolarità negative della organizzazione sociale e culturale umana. I suoi lati caratteriali non devono essere motivo per appellativi tendenziosi o travisanti. La valorizzazione e la conoscenza dell’asino (= del maestro) si ottiene attraverso attività di educazione e sensibilizzazione”. Nel Diritto al cibo, intendendo per cibo quel poco che un maestro può permettersi di mangiare col suo misero stipendio, scopriamo che “l’asino (= il maestro) è un animale frugale e al contempo adattabile a molte situazioni alimentari. Ciò non toglie che l’asino (= il maestro) ha diritto ad avere cibo a disposizione per alimentarsi secondo le proprie necessità”. Infine, nel Diritto a essere asino (= maestro), concordiamo nel fatto che “per quello che l’asino (= il maestro) ha rappresentato nei secoli, occorre una presa di coscienza che doni all’animale, anche nell’immaginario individuale e collettivo, il prestigio di essere se stesso”.
Nei miei 55 anni, di poter copiare dalla Carta etica dei diritti dell’asino, spunti per compilare una relazione sugli aspetti sociali “dell’essere insegnante oggi”, non me lo ero sognato nemmeno quando ero sotto l’effetto allucinogeno della maschera dell’ossigeno all’ospedale!
APRILE 2008
AVVISO AI NAVIGANTI: TEMPESTA DI SENTIMENTI
L’Italia naviga in cattive acque. Anch’io! Non so se il motivo sia dovuto proprio al fatto che sono italiano, o se, in qualità di corrispondente da Fresonara del giornale, io non riesca mai a trovare spunti degni di cronaca del mio paese, ma… sento di andare alla deriva. Conscio di essere a rischio di licenziamento, mi sforzo ogni volta per trovare un avvio, ma non rimedio mai niente che smuova i miei sentimenti. Lo so. Il giornalista non ha sentimenti. Racconta la cronaca con oggettività. Che brutta faccenda! Io ho i sentimenti, quindi non sono un giornalista. Accetto la critica. Per fortuna vostra, l’oggettività la trovate nelle colonne dei giornalisti che scrivono sui quotidiani politici! A proposito di sentimenti: proviamo la perfidia. Potrei usarla per parlare di tendopoli, o delle manovre segrete per preparare le nuove liste 2009-2014, o fare un’inchiesta sui Comitati di salute pubblica… Ma perché continuare? Quando parlo di queste cose con gli amici, dopo tre secondi cambiano discorso. Forse perché sono anch’essi in cattive acque? Proviamo con la bontà. Potrei riferire di come erano buone le uova di Pasqua, ma qui si confonde il cioccolato con lo stato d’animo. E poi ci sono quelli che non le hanno digerite. Forse - usando il sentimento del dubbio - perché non le hanno nemmeno mangiate!? Mettiamo in campo l’uguaglianza: le scuole sono tutte uguali! Secondo me, no. E nemmeno gli insegnanti. Di uguale, a scuola, non ci sono nemmeno le equivalenze. Che ne dite, allora, se usassi l’ironia? In fin dei conti non per niente sono autore di testi teatrali ironici, di racconti ironici, di poesie ironiche, di battute ironiche. Sono ironico per ironia della sorte… ma c’è già qualcuno che sta pensando: “Ma taci! Chi ti credi di essere?”.
Mettendo in campo il sentimento del rinvangare, potrei farvi morire dal ridere nel raccontarvi delle botte e degli insulti al Torneo di calcio dei rioni, sorto per affratellare le genti… o piuttosto di come mai ci sia un errore persino sul dorso del libro sulla storia di Fresonara… ma vedete, cadrei in discorsi per iniziati e il resto dei lettori non capirebbe un tubo. Come i tubi dell’acquedotto, che ogni tanto si rompono. Mi piace quando i tubi dell’acquedotto si rompono. Finalmente le strade si riempiono di gente che non si vede mai. Ci sono decine di Fresonaresi che esistono soltanto quando manca l’acqua. Io ne approfitterei per mettere un tavolo in piazza e fare il censimento. Ah, c’è ancora il sentimento della disonestà. Chissà perché, sino a quando si credeva che fosse il Comune ad autorizzare l’uso delle aule scolastiche per attività non inerenti la scuola, fosse sempre tutto sporco, tutto un disastro. Da quando il Direttore, o Dirigente Scolastico, come si chiama oggi, ha chiarito ufficialmente che l’autorizzazione è soltanto sua, tutto, taumaturgicamente, è sempre pulito e in ordine. Miracolo della fede. Come quelli di un certo Emilio. La sua sarà una Fede più terrena, più vicina a Cologno che al cielo, ma io mi diverto un mondo ad ascoltare il suo telegiornale. Invece, a Fresonara, se mi voglio divertire, mi devo scrivere una commedia da ridere, cercarmi gli attori, farli recitare e poi stare a sentire degli attori che recitano una mia commedia da ridere nemmeno bene come pretendo io e che tra l’altro conosco già a memoria. Ma è vita, questa? No, caro direttore, no. Io non voglio fare il corrispondente da Fresonara. Sono stato operato alla mitralica. La confusione mi fa accelerare i battiti cardiaci, il sangue si ispessisce e devo aumentare la dose di Sintrom. Preferisco fare ciò che mi piace di più: prendere in giro la stupidità, l’ottusità, la cattiveria, la maldicenza e perdonare lo stupido, l’ottuso, il cattivo, il ciarlatano. Anzi, da oggi do mandato ufficiale: siete tutti liberi di parlare male del sottoscritto. Senza paura. Anche se lo verrò a sapere, vi perdono in anticipo, non vi farò alcuna lamenta, perché non avrò tempo. Sarò impegnato a rivolgere le mie attenzioni serie all’intelligenza, all’acume, alla bontà, alla giusta causa.
Strano. Sento una vibrazione elettrica intorno alla testa. Si è accesa tutt’intorno alla mia nuca una intensa e diffusa luce di mille colori. Sarà mica un’aureola? Devo smetterla di credermi di essere perfetto, altrimenti dovrò affrontare anche il sentimento della gelosia. E anche le spese della prossima bolletta ENEL. Non vorrei che gli ulteriori addebiti per tenere acceso il cerchio fossero a mio carico. Il discorso è vecchio. Mia moglie mi ha sposato per i soldi. Per i soldi per lei, non per mantenere la mia santità. Ci risentiamo. Appena capirò come funzionano le due ali che mi sono cresciute dietro e riuscirò ad atterrare di nuovo di fronte al mio computer. Perdonatemi.
MARZO 2008
I CAPELLI DEL POETA
“Ti Domenico, ‘t gäj ij cavaj cmè ij pòeti, sëj, cmè ij pòeti, sëj… sëj…” Quali siano i capelli dei poeti, o come portino i capelli i poeti, non lo so ancora adesso. Ma per Angelo Panäda non c’erano dubbi. Con quei capelli avrei conquistato mia moglie con una poesia che avrebbe provocato, 22 anni dopo, un inseguimento da parte sua per ulteriori chiarimenti da parte mia sino a Basaluzzo… Certo che a 18 anni portavo i capelli lunghi sino alle spalle prima di tutto perché li avevo e crescevano in abbondanza. Poi c’erano le ragazzine… ed io, con quella zazzera un po' ondulata che mi faceva il parrucchiere, bruciando le doppie punte con la candela, ero bellissimo! Ma soprattutto c’erano altre due cose: l’età per fregarsene dei parrucconi che mi guardavano perplessi e un cast di antichi personaggi con i quali, pur facendo io la parte del giovane amoroso, recitare la vita del paese non aveva bisogno di copione.
Con la stessa testa di capelli, ancora bagnata dal torrente d’acqua che si era scatenato nel pomeriggio al campo sportivo, mi presentai la sera al bar per scaricare ancora un po' di adrenalina rimasta dopo la vittoria contro la Boschese. Ad aspettarmi dietro la porta Ir Carlëj dir Comeuo, del quale anche l’articolo va scritto con la lettera maiuscola, perché entrato di diritto a far parte del nome intero del personaggio. Non parlò. Prima mi abbracciò come un padre abbraccia un figlio, poi, con le lacrime agli occhi, mi elesse all’unanimità fanciót ‘d Fërsnèra, che era come essere equiparato al mitico golden boy del Milan.
Altri tempi. Altri uomini. Migliori? Peggiori? Sicuramente diversi. Ma io sono un maestro, quindi faccio il tifo per il tempo dei miei alunni. Alcuni ex oggi hanno già più di 30 anni. Forse un giorno mi siederò proprio sul lettino medico di uno di loro. O forse, ad un altro chiederò di prepararmi una lettera in qualità di avvocato. Ci pensate? Gli ho insegnato io a scrivere, e adesso lui scrive per me. E che figura farei se, mentre il primo mi visita, mi rinfacciasse di non avere avuto fiducia in lui quando di lezione gli davo da studiare l’apparato cardiocircolatorio… Per fortuna io non mi fido, invece, degli adulti istituzionalizzati. Sono arabe fenici che si riproducono sulle loro stesse ceneri per convincermi che c’è una sola verità: la loro. Ce ne sono anche nella scuola. Della quale invito sempre gli alunni a stare molto attenti. Anche del loro maestro. Il bambino bravo fa comodo a tutti coloro che in qualche modo fanno i maestri. Specialmente se per bravo si intende culturalmente scarso, coscienziosamente indifferente e (nulla)facente parte della maggioranza silenziosa, che essendo tale, non rompe! Io penso che i sì e i no sinceri e ben motivati dei miei alunni saranno, invece, la loro libertà e la loro ricchezza di donne e uomini ai quali darò la mia fiducia anche da adulti.
Dai miei tempi ad oggi, quanta strada si è fatto... Si è passati dal sei politico del ‘68 alla conferenza sul bullismo di venti giorni fa a Novi. Lo Stato ha permesso, per 40 anni, che della gentaglia fosse libera di fare e sfasciare ciò che voleva a scuola e allo stadio per poi chiamarli bulli e chiedere a me di intervenire. Lo farò! Da domani castigherò severamente tutti i Ministri della Pubblica Istruzione - e da loro a scendere - che si burlano di me, dei miei alunni, dei loro genitori e trattano il plesso di Fresonara come se fosse un’operazione aritmetica, un’equazione. Semmai, se proprio vogliono rimanere nella matematica, il plesso di Fresonara è un’espressione. L’espressione amara di chi non riesce a capire la differenza omicida che c’è tra 14 (scuola chiusa) e 15 (scuola aperta). E se dietro ad ogni espressione c’è un problema, il problema è che dietro al 14 e al 15 c’è il viso di altrettanti bambini che non vorrebbero essere considerati numeri.
Prima delle ultime elezioni politiche ricevetti diverse lettere di un candidato che prometteva - in cambio del voto - di essere al servizio dei cittadini. Per togliermelo dai piedi, gli scrissi chiedendogli di fare qualcosa per gli alunni di Fresonara. Anch’essi sono cittadini… Come d’incanto, sparì! Certo. I bambini non votano! Manca poco alle prossime elezioni, ma è ancora così tanto spaventato, che non mi ha più scritto. Gli conviene non farlo, perché sarebbe il primo a beccarsi una nota…
Quello che non capisco dei miei tempi, caro Angelo, è come abbia fatto mia moglie ad innamorarsi di una mia poesia se io, con quella poca peluria che mi era rimasta già ai tempi dell’inseguimento, non avevo più i capelli da poeta. Che abbia fatto finta e in realtà mi abbia sposato soltanto per i soldi? Accidenti! Vista la svalutazione, per mantenerla chiederò un aumento al Direttore dell’Inchiostro Fresco. Naturalmente senza fare il bullo istituzionalizzato e senza troppa insistenza, perché a ra gèint, ‘t pói mëja piägh o sangh… Vero, Carlei?
FEBBRAIO 2008
LE CANZONI DELLA RADIO
“Adesso c’è Celentano che canta Azzurro… Scommetti che adesso, invece, canta Patty Pravo?…” Che Valerio avesse dei numeri, lo sapevamo, ma che riuscisse anche a predire l’ordine in cui la radio di Stella avrebbe sciolto, insieme ai sorrisi, le canzoni di quella torrida estate, alla terza rivelazione ci sembrò davvero grossa. Stretto nella morsa delle insinuazioni sempre più incalzanti, il segreto era sul tavolo della inaccessibile stanza-laboratorio. Superata la botola, nel rozzo marchingegno, dal quale uscivano, insieme a multicolori fili elettrici, le voci dei Pooh, faceva spicco la rossa luce di un coso che a domanda fu sentenziato da Valerio trattarsi di un led! Collegato a quell’informe scatolame vociante un registratore a cassette. Ecco perché Valerio conosceva a memoria la sequenza delle canzoni. Erano quelle preregistrate su nastro che, via onde radio, diffondevano la loro melodia al bar, dove la sorridente barista dall’astrale nome stava ora chiedendosi se “il farsi mandare dalla mamma a prendere il latte…” fosse davvero una buona scusa per farsi far la corte lontano da occhi indiscreti…
Duemila watt di potenza era il ripetitore che alcuni anni dopo, dai colli della Val Curone, collegava il nostro studio di
trasmissione a Fresonara con la Pianura Padana, della quale le bandierine infisse nella carta geografica ne segnavano i confini sempre più lontani delle telefonate. La corrispondenza faceva classifica: al primo posto le cartoline per Suspy, il Dj più amato dalle teenager. Al secondo posto le raccomandate della S.I.A.E., le lettere degli avvocati delle radio disturbate dalla nostra frequenza e le buste di un Ministero delle Comunicazioni che in quel caos non ci capiva niente, così da comunicare con noi attraverso circolari che, come obbligati fruitori, ci toccava ogni volta far finta di aver capito.
Mille, forse anche di più, le pubblicità mandate in onda, molte delle quali erano meglio del disco appena ascoltato, del quale il Dj di turno, come da copione, ne svelava la dedica abbassando la musica col tastino a destra del mixer. Ancora oggi, venticinque anni dopo, trovo persone che si ricordano degli spot pubblicitari racchiusi nei box impolverati dentro il garage. Chissà se il nastro sa ancora convincere, con la voce dello speaker, sulla bontà del prodotto. Stanno lì da venticinque anni, le cassette delle mie pubblicità. Dentro uno scatolone nel garage. Ma sono ricordi che non ho voglia di riascoltare. Le stesse ore notturne che passavano veloci alla ricerca del claim sensazionale che a volte giocava a nascondino sino all’alba, le passo ora a scrivere racconti sui giornali, copioni teatrali, poesie…
Adesso, però, so per chi scrivere. So dove posare il foglio prima di andare a dormire. E il sorriso o la lacrima di mia moglie al mattino mentre prende il caffè sono il segno che il sentimento ha superato l’esame.
Povera Radio Super Sound. Sei stata nelle mani di gente che al di là del gioco non ha capito niente. Bisticciavano per l’acquisto dell’ultimo successo dei Yougotofish piuttosto che della Pantera di Goro… e non comprendevano che bucare l’etere era avere in mano un potere che qualche tempo dopo un famoso Cavaliere conquistò a suon di miliardi.
Lo aveva però capito Valerio, che si era conquistato l’ammirazione del bar per le sue virtù profetiche e si divertiva col microfono a burlarsi degli avventori. Ma lui giocava.
Tu, Radio Super Sound, non eri un gioco. Non sei stata un gioco. Quando si firmano pacchetti di cambiali per un ripetitore da 2000 watt, poi, bisogna fare le cose sul serio.
Anche la Finanza è stata una cosa seria. Ma tu ormai eri allo stremo. I Dj non se ne sono nemmeno accorti e gli altri si sono dimenticati di dire grazie a chi, due volte al giorno, firmava i verbali di accertamento.
Così una notte, all’improvviso, sei finita. Come la vita di un giovane motorino senza fari che giocava lungo la provinciale. Aveva l’età per fare gli stessi zig-zag che qualche anno prima facevamo noi. Solo che, quando l’avevamo fatta noi, la biscia lungo lo stradone a fari spenti, l’automobile non era passata. Non poteva passare, perché quella nostra sera, tu, Radio Super Sound, non c’eri.
Addio Radio Super Sound, spero di non incontrarti più.
DICEMBRE 2007
LE IMPRONTE DELLA FANTASIA
Le pesanti impronte nella neve erano ineccepibili. Si trattava certamente di loro. D’altra parte il fieno lo avevano mangiato tutto e di acqua nelle conchette non ce n’era più. Nella nostra sincera generosità non facevamo certo economia di foraggio. L’ora stabilita era sincronizzata subito dopo cena. I compiti erano precisi e molto delicati. Il papà saliva sulla cascina. Mio fratello ed io dovevamo sistemare i tre fastelli sotto le finestre. Alla mamma spettava il compito di riempire le bacinelle d’acqua. Un’ultima occhiata tanto per essere sicuri di non aver dimenticato qualcosa, poi tutti in cucina. Ma quella sera non era fatta per stare svegli. Finché ci fosse stata la luce accesa in casa, non sarebbero arrivati, per cui era meglio addormentarsi alla svelta… I sogni non mancavano di certo e in quell’occasione il sogno era sempre lo stesso. Dalla strada dei Quarti arrivavano i carri pieni di giocattoli. I servi proseguivano su per la cròsia, mentre i tre Re Magi risalivano il rivone. Nel cortile i cammelli trovavano di che mangiare e bere a volontà. Quello più alto, sotto la finestra del primo piano, grazie alla sua mole consentiva al Magio di arrivare comodamente a livello dei vetri. Le persiane erano chiuse senza chiavistello, per cui permettevano di depositare sul davanzale arance, mandarini e un buon numero di caramelle. E per ultime le due scatole con il nastro dorato, dove c’era la frenesia di un anno intero. Che sogno bambini, che sogno! E il mattino, appena sveglio, il sogno continuava ad essere un sogno nella sua splendida realtà.
E pensate, bambini, che ci sono degli adulti che sono talmente stupidi che un bel giorno, per darsi delle arie da furbi, decidono di non credere più ai Re Magi. Certi vorrebbero darmi d’intendere che mentre dormivo il mio papà e la mia mamma toglievano fieno e acqua, mettevano i regali sul davanzale e sparivano. Per fortuna io non sono così sprovveduto da starli a sentire. Io aspetto tutti gli anni i Re Magi e tutti gli anni arrivano.
Un inverno mi sentivo solo e avevo il muso. Il Magio dal cammello più alto, mi ha visto dalla finestra e mi ha regalato una bambolina con i capelli rossi. Sembra viva! Parla, canta e mi manda i bacini… Ma come è possibile che non esistano i Re Magi, che sono stati i primi a capire che una stella li avrebbe portati da un bambino la cui capanna non aveva il davanzale, ma che stava aspettando anch’egli i regali?
Prepararono con attenzione quel viaggio, fissarono con cura lo scopo della visita perché compresero chi era quel piccolo nato e andarono per adorarlo. Presero le informazioni necessarie, ricercarono la guida sicura, la stella, appunto, e la seguirono con attenzione. Partirono senza esitazione, lasciando terra e parenti, perché lo scopo che si erano prefissi riempiva totalmente il loro cuore. Non si lasciarono turbare dagli eventi e coinvolgere dai turbamenti. Così poterono sperimentare la vera gioia. La prossima volta che quel bambino verrà sulla terra sarà come un re che ha vinto tutto. Come noi, che quando leggiamo: c’era una volta un re… con la nostra fantasia siamo certi che quel re siamo noi.
NOVEMBRE 2007
LA SCATOLA DELLE CONSEGNE
La scatoletta di legno, col coperchio come uno scrigno, era chiusa all’esterno da un piccolo lucchetto rotondo grigio arrugginito, di quelli con la chiave come una volta, di ferro nero, col cannello lungo. La vista non era più quella della gioventù. Da ragazzo avrebbe scorto uno sghirbé sul fico da cento metri, ma adesso, con l’aggiunta del tremolio alla mano destra, centrare la toppa era impresa da lasciare ad altri. Erano mille anni che la scatola non veniva più aperta e all’avvenimento, oltre a tutti i canoni della segretezza, si dovevano aggiungere i requisiti del mistero e dell’eccezionalità. Intinta la penna di gallina nel barattolino dell’olio, unse la barba della chiavetta, poi la passò a cinque dita che sommate tra loro facevano la misura del suo indice. La chiavetta ruotò senza il minimo rumore e l’ansa scattò in alto aprendosi. Ora toccava a lui. Sfilò il lucchetto dall’anello e ribaltò la cerniera. Ma non era ancora tempo di sollevare il coperchio. Ci voleva prima la formula del solenne giuramento. La vocina ripeté ad una ad una le parole che uscivano dal fumo del sigaro. La mano destra, alzata, testimoniava l’importanza del passaggio di consegne. Era meglio dare ancora una volta un’occhiata al cortile. Poi, per maggior sicurezza, fece scorrere il sacco di iuta sul filo di ferro. Adesso anche la finestrella della stalla avrebbe celato ad occhi indiscreti il mistero. Le mucche erano girate di schiena. Non si sa mai… Dovessero mettersi a parlare… Alzò la scatoletta dal muretto del gripione e la posò sopra le due balle di paglia dove una volta teneva legato il toro. Chiese al piccolo se era pronto. Le labbra serrate e il corto e veloce movimento verticale del capo risposero in silenzio. La mano sinistra fermò la scatola, mentre la destra, quella tremante, strinse il coperchio e lentamente lo sollevò. Dopo mille anni esatti, nella stessa ora di mille anni fa, quattro occhi posarono il loro sguardo sul segreto della scatoletta. Le due ombre della fioca luce del lume si mescolarono d’incanto ad altre due apparse improvvisamente…
Fuori, il vento di tramontana entrava dalla botola del fieno socchiusa e terminava la sua corsa sventolando la striscia invischiata della carta acchiappamosche. Il sole stava scomparendo dietro le acacie più alte del rivone e il cielo sulle vette dove gli Appennini abbracciano le Alpi bruciava per illuminare l’arrivo della sera. Quando il vecchio giorno sente arrivare il suo momento, chiama il nuovo giorno per consegnargli il destino del Tempo. La porta della stalla si aprì e il bambino, al richiamo, corse in casa. Il sigaro, nella bocca coricata sulle balle di paglia, era arrivato alla sua ultima spira di fumo. La scatola, sigillata dal lucchetto, era stata già riposta dove fra mille anni una mano tremante avrebbe riconsegnato il segreto a cinque piccole dita.
OTTOBRE 2007
L’ARCOBALENO NELL’ASTUCCIO
L’astuccio era di legno. Quando lo aprì ne uscì una fontanella d’acqua verdina che ci fece scivolare sotto il banco dal ridere. La copertina del sussidiario si era incollata a quella del libro di lettura, cosicché, quando il maestro, che non credendo ai suoi occhi non aveva nemmeno la forza di urlare, le staccò, il rosso della prima si mescolò col giallo della seconda, originando la stessa gradazione di quell’arancio che non faceva più parte dei nove colori rimasti nella mia scatoletta dei Giotto. Quando poi riuscì a scollare con le unghie la metà del quaderno a quadretti, l’enorme macchia blu tendente al viola trasparente ci fece svenire dal singhiozzo. Era lo spasmo del diaframma nel suo tentativo di mantenere la respirazione mentre asciugavamo le copiose lacrime con la carta assorbente. Ma non rideva per niente il maestro, il quale, ripresosi dallo shock, mentre si sedeva dietro la cattedra ordinò ai maschi di alzarsi tutti in piedi. È proprio vero: lo spavento fa passare il singulto. Lo sguardo chino mi aiutò a concentrarmi sulla situazione dei miei stivali di gomma: una schifosa poltiglia marrone li ricopriva dalla punta al tallone. Allungai lo sguardo al pavimento. Orrore! Le orme di fanghiglia sulle piastrelle partivano da sotto la porta chiusa e arrivavano esattamente a fermarsi di fianco al mio banco. Pensai a Silvio Pellico.
- Dunque? - tuonò il maestro.
- Dunque Gianni non aveva gli stivali, così, per evitare che la cartella finisse giù in Montecaprato, decisi di scendere io nel fosso per recuperarla. Ma la colpa, signor maestro, è dell’acqua allo stato liquido. Nel senso che in quello stato lì l’acqua è come ubriaca e si diverte a bagnare tutto quello che ci finisce dentro. Sì, lo so, signor maestro, che una cartella non finisce da sola dentro un fosso, ma la colpa non è di Enzo che ha detto ad Umberto di dire a Gianni di buttarla dentro. La colpa è del fosso, che pende proprio in direzione della scuola, cosicché quella stupida dell’acqua tirava proprio dove eravamo diretti noi. È vero, signor maestro, che ognuno è responsabile di quello che tira, ma se Gianni è responsabile di aver tirato la cartella nel fosso, il Comune è corresponsabile di tirare l’acqua al proprio mulino, ché, con le tasse che paga mio papà, avrebbe già dovuto intubare il suddetto fosso fin dal sindaco precedente. Nella fattispecie l’acqua liquida non sarebbe finita nell’astuccio e il sussidiario non avrebbe la copertina del libro di lettura. Lei maestro è un po'… anzi… molto arrabbiato, per questo è convinto che noi l’abbiamo combinata grossa. Ma se ci pensa con calma, che colpa possono avere quattro bambini per il fatto che piove da una settimana, il Comune è un manicomio e la cartella, invece di galleggiare, va a fondo come il Titanic? E prima di essere rinchiuso nello Spielberg, signor maestro, vorrei che lei considerasse le attenuanti generiche prevalenti sull’aggravante contestata: è vero che ho sporcato tutto il pavimento, ma è ancor più vero che non ho esitato a calarmi nel fosso fino al ginocchio per recuperare la cartella, a sprezzo del reale pericolo di essere trascinato dalla corrente nella cascata di Montecaprato.
Il maestro si commosse. Estrasse il candido immacolato fazzoletto dalla tasca del nero grembiule e si asciugò le lacrime che gli scendevano più copiose delle nostre prima. Non riusciva a capacitarsi di avere nella sua classe quattro deficienti che in una giornata di tempesta, invece di venire dritti a scuola, si fermano sul ciglio del fosso che costeggia Via Marconi e fa defluire le acque piovane verso la roggia. Vi buttano dentro una cartella per giocare all’affondamento del Titanic, si salvano dal naufragio per misericordia e poi vanno a rischiare di morire dal ridere sotto il banco. E per difendersi intonano un’arringa degna di un principe del foro. Singhiozzò forte. Ci faceva pena. Umberto, che era il più sensibile, gli si avvicinò. Estrasse dalla tasca, insieme a due spaghi, una chiocciola viva e un pezzo di carbone, una mentina. La spezzò con i denti e gli porse la parte più grossa. Aveva un cuore d’oro, Umberto. E delle impronte digitali scolpite dall’antracite che il maestro, quando le sentì scricchiolare sotto i suoi, di denti, si diede uno schiaffo da solo. Poi, con grande dignità, convenendo tra sé e sé che un insegnante ha gli scolari che si merita, finì di masticare quella roccia sedimentaria e con la calma del forte ordinò di prendere il quaderno e di scrivere la data. Quindi cominciò a dettare: - Quando piove l’acqua allaga gli astucci e bagna il carbone. Così il maestro lo mangia insieme alla mentina. Svolgimento.
Aveva l’astuccio di legno, Gianni. Di quegli astucci stretti, con il coperchio che scorreva dentro due binari intagliati nella cornice. Era povero, Gianni, per questo aveva l’astuccio di legno che il Patronato Scolastico gli aveva passato gratuitamente. Ma dentro il suo astuccio c’era il Titanic, Montecaprato, una roggia in piena come il Tigri e l’Eufrate messi insieme… C’era dentro la spensierata innocente libertà di gettare la scuola dentro il fosso e di vederla affondare. Tanto, qualcuno si sarebbe calato per riportarla a galla! Aveva anticipato i tempi, Gianni. Oggi la scuola affonda da sola, nel mare delle continue insensate riforme che considerano il bambino al prezzo di 5 virgola rotti euro. Solo che oggi non c’è più nessuno che si tuffa, e chi fa le riforme strampalate non è innocente… C’era l’arcobaleno, nell’astuccio di Gianni. Un arcobaleno di soli tre colori, quelli che gli aveva regalato chi ora, con gli stivali sporchi e i calzoni bagnati sino al ginocchio, stava colorando la cornicetta con i nove Giotto rimasti. Ma la libertà di gettare la cartella nel fosso non aveva prezzo.
Enzo disse ad Umberto di dire a me di voltarmi. Il maestro stava accarezzando i capelli di Gianni. La sua cornicetta, tutta arancione con gradazioni verde acqua, era la più bella.
SETTEMBRE 2007
PERMETTETE? VI PRESENTO UN CASO DI BUONA SANITÀ
L’appuntamento con la giornata più paurosa della mia vita era per mercoledì 11 luglio, alle ore 9 in punto. Invano avevo sperato, nella notte, in un terremoto, in un’eclissi totale di 53 giorni, in una invasione di cavallette nelle piane del Ticino. Niente! Assolutamente niente. Come i sintomi della malattia: zero assoluto! Riuscii a mantenere un certo controllo della psiche sino a quando la porta del corridoio si chiuse dietro le spalle. Da quel momento un’improvvisa regressione mi portò a cercare continuamente con gli occhi la presenza di mia moglie come un bambino cerca la sicurezza nelle braccia della mamma. Espressione inebetita, sudore alle caviglie, piedi surgelati. Se non fosse stato che mi trovavo nel reparto di cardiochirurgia del Policlinico San Matteo di Pavia, avrei riso per quella situazione fantozziana, ma le firme sull’autorizzazione all’operazione, alla somministrazione dell’anestesia e sul prelievo del sangue per l’HIV, mi resero cosciente che stavolta toccava a me. Il ritratto della salute, l’uomo forte, l’immortale, era di fronte alla verità sulla sua fragilità psico-fisica a causa del prolasso della valvola mitralica. Certo il prof. Viganò non aveva sprecato parole, qualche mese addietro: era scritto nel mio destino l’affidarmi alla sua sapienza per rimuovere il difetto. Il tempo di mettermi il pigiama, di coricarmi accartocciato su me stesso nel lettino, che già era il momento di spogliarmi per la rasatura delle gambe. Due chirurghi erano pronti per dedicarmi il primo esame pre-operatorio: coronografia! Nudo come un vermicello le sonde che dall’inguine salivano alle irroratrici del cuore diedero un buon responso: tutto a posto!
Puntuali come svizzeri, la mattina del 16 luglio, alle ore 6:00 due infermieri completarono l’opera di tosatura e mi cosparsero di un freddo disinfettante marrone. Poi, mentre uno mi faceva bere 40 gocce, l’altro aggiungeva alla pre-anestesia una punturina nel posto più idoneo per riceverla. Da sotto la copertina di lana, vedevo le labbra di mia moglie trasformarsi nel sorriso di un angelo. Tutto mi diventava leggero, il tremore per la paura ora era un soffice dormiveglia. Un bacio e poi giù in sala operatoria, il tempio dove Dio impresta tutti i giorni le sue mani a uomini che non conoscono le feste, che non portano orologi, che si dimenticano di sapere che giorno è. E quel giorno l’equipe di Dio era tutta per me. Il loro cuore per salvare il mio.
Mi risvegliai in terapia intensiva esattamente come mi aveva detto il giovane medico il giorno del ricovero: maschera dell’ossigeno, tubo in trachea, altri tubicini o qualcosa di simile che uscivano dal collo e dal costato. Tutto come da routine: il prof. Viganò aveva mantenuto la promessa. Un taglio di pochi centimetri sotto la quarta costola, dal quale infilare la protesi al posto pattuito attraverso i canali naturali che vanno al cuore. Martedì 17: il ritorno in reparto, dove gli occhi e le labbra di mia moglie mi aspettavano per piangere insieme al mio corto respiro sotto la maschera. Finalmente potevamo liberare le nostre tensioni. Genitori e fratelli stavano sicuramente facendo la stessa cosa in altri cantucci.
Dolore post-operatorio? Lo stesso che provavo al costato nelle partite di calcio, quando l’avversario, invece che sportivamente, giocava di gomiti… Insomma, una cosa ben sopportabile anche durante la fastidiosa tosse per spurgare i polmoni.
Ogni giorno un tubicino in meno e un grammo di energia in più, sino a quando, venerdì 20, alle ore 14, il rullio della sedia a rotelle spinta dal volontario della Croce Rossa, augurandomi una pronta riabilitazione al Maugeri, salutava per me la numerosa famiglia vestita di bianco che nei dieci giorni di ricovero non mi aveva abbandonato per un solo minuto.
Cari lettori, gli ospedali non sono entità astratte. Sono costruzioni in muratura dentro le quali lavorano uomini e donne con la loro professionalità, la loro sensibilità, la loro capacità personale di raffrontarsi e di mettersi al servizio del malato, che è malato anche perché è debole fisicamente e psicologicamente, per cui un sorriso ha lo stesso effetto di una medicina. Sono posti nei quali si riversa una parte consistente delle tasse di chi, quando ne ha bisogno, mette nelle mani di quegli uomini e di quelle donne il suo futuro. Ma la medicina ha bisogno oggi di un elevatissimo e costosissimo supporto tecnologico. Lo Stato deve quindi garantire l’assoluta certezza di dove vadano a finire i nostri denari. Il cittadino, già spolpato da mille balzelli, non gradisce i servizi di Striscia la notizia. Non ci fa ridere sapere che il politico di turno, immischiato in chissà quali imbrogli, ha depistato in altre tasche i soldi che dovevano servire per salvare la vita di un nostro parente o la nostra. Se in certi ospedali operazioni così delicate come la mia, diventano di routine, vuol dire che l’abbinamento uomo-ricerca tecnologica sono al servizio esclusivo dell’ammalato per rendergli ogni giorno più facile la via della guarigione.
Io, al San Matteo di Pavia, sono guarito.
AGOSTO 2007
COMPITO DELLE VACANZE
Questa volta dobbiamo risolvere un problema. Ecco il testo: La mamma di Luigi va al supermercato e compra due etti di prosciutto da 40,00 € al kg, poi acquista 4 barattoli di pelati che costano 0,50 € l’uno e un pacco di biscotti da 3,25 €. Si domanda: perché la mamma di Luigi è andata al supermercato con il figlio?
Dite la verità! Vi aspettavate un’altra domanda. Quella più comoda, quella delle elementari, quella aritmetica. Ma l’aritmetica non fa diventare intelligente nessuno. Sei per otto fa quarantotto semplicemente perché quarantotto diviso otto fa sei! In questo caso, invece, bisogna ragionare sulle varie ipotesi. E saper calcolare le varie ipotesi rende veramente intelligenti, anche se un mio amico dice che solo chi è già veramente intelligente sa mettere sulla bilancia le varie ipotesi. Ma non perdiamo spazio a filosofare.
Ipotesi: La mamma ha portato Luigi al supermercato perché il bimbo si era comportato bene, perciò è stato premiato. Al contrario, Luigi ha fatto arrabbiare la mamma e lei, per castigo, lo ha portato via dal gruppo degli amichetti. E se la signora avesse portato con sé il figlio pur di non lasciarlo dalla suocera con la quale non va d’accordo? O magari la donna, separata, vive da sola e non può fare altrimenti. Forse Luigi non ne vuol sapere di frequentare la scuola dell’infanzia. Forse serve da scudo alla mamma per quelle odiose avance di una sua vecchia fiamma che gira nei paraggi... E se fossero i genitori degli altri bambini a non lasciarli giocare con Luigi per via di certe dicerie sul papà?
Dite un’altra volta la verità: sono ipotesi fastidiose, vero? Certo che lo sono, perché vi hanno fatto venire alla mente situazioni nelle quali forse vi siete trovati anche voi. E proprio oggi che avevate deciso di non pensare a niente, tant’è che stavate leggendo il qui presente foglio… Beh! Non è il caso di piangere. Non era forse un semplice compito delle vacanze? Speriamo soltanto che se l’estate è già la stagione dei cagnolini abbandonati sull’autostrada, non diventi anche il periodo dei bambini abbandonati nei supermercati.
VACANZE ESTATE FRESONARA 2007
Abbiamo già visto cosa vuol dire vacanza per i cagnolini e per i bambini.
Vediamo di analizzare anche cosa vuol dire vacanza per gli altri esseri viventi.
Iniziamo dalle piante. Difficilmente una pianta viene a passare le ferie a Fresonara. Non che il nostro paese non offra spazio e acqua a sufficienza per un albero, ma i vegetali sono un po' come gli anziani: quando mettono le radici in un posto, è difficile smuoverli da lì.
Finito anche il periodo d’oro delle rondini, per le quali, con la moneta unica, il prezzo degli insetti oggi non è più conveniente, nel mio cielo svolazzano soltanto gazze e uno stupidone di merlo che ha scambiato la sua figura riflessa in un vecchio specchio in cortile (da buttar via) per una femmina. Così da due mesi continua a dar zuccate contro se stesso pensando di baciare la futura sposa.
Detto che a chi viene per turismo d’estate a Fresonara dovrebbe essere ritirato per sempre il Certificato d’Intelligenza, sull’uso delle seconde case vi rimando al numero precedente, al capitolo I Liguri Statielli. Per quanto riguarda la riscoperta della campagna, andate a intervistare il sig. Giovanni di Fresonara. Riceve tutti i giorni feriali, dalle 14 alle 16, presso il suo orto in località Ciapëti. Dopo la prima cassetta di verdura a 50° all’ombra, vi renderete subito conto che la scoperta dell’America, in confronto alla riscoperta della campagna, fu una divertente crociera.
Insomma, smettetela con i soliti luoghi comuni. Per ritemprarsi il corpo e lo spirito non ci vogliono soltanto il mare, la montagna, il lago, la campagna… Per ritemprarsi bisogna cominciare a capire che non è vero che l’acqua bolle a 100 gradi e soprattutto che Santa Lucia non è il giorno più corto che ci sia…
LUGLIO 2007
COMPITO DELLE VACANZE
Inchiostro fresco di luglio. Tema: racconta come passano l’estate gli abitanti di queste antiche terre. Svolgimento.
Le terre saranno antiche, ma gli abitanti sono sempre gli stessi. Tremila anni fa tribolavano nei nostri paludosi boschi le tribù dei Liguri Statielli? Ebbene, tremila anni dopo gli storici non sanno ancora spiegare perché i Liguri continuano a morire di afa per passare le vacanze qui, mentre quelli di qui pagano migliaia di monete per sopravvivere quindici giorni in una pensione della riviera. Secondo me è una questione di filosofia della vita. I genovesi, che sono avari, vengono gratuitamente a Fresonara nella casa dei parenti, mentre i bacecchi, per far vedere che ne hanno tanti, li vanno a spendere al mare. Ora, siccome, parafrasando Gelindo: “I bacecchi, in qualsiasi parte del mondo vadano, son sempre bacecchi…”, veniamo a tempi più recenti.
Anni ’50-’60. Fresonara è divisa in due ceti sociali: contadini e non-contadini. È il periodo in cui i contadini d’estate non vanno al mare (e nemmeno in montagna) non perché c’è da lavorare, ma perché vogliono far vedere che lavorano. I non-contadini, invece, vanno al mare (o in montagna), perché vogliono far vedere che non sono contadini. Il sondaggio dà ancora una volta ragione a Gelindo.
Negli anni ’70-’80 Fresonara recupera un altro ceto sociale. Ai contadini, che adesso si chiamano agricoltori, e ai non-agricoltori, si aggiunge la classe dei picciotti, cioè i figli degli agricoltori e dei non-agricoltori. I quali fanno comunella, e fregandosene del mestiere dei padri, d’estate se ne vanno insieme al mare in Sicilia e in montagna a Canazei a spese dei genitori. Tre ceti sociali. Come in Rinaldo in campo.
Negli anni ’90 i sei fresonaresi su cento che fanno parte del settore primario in qualità di imprenditori agricoli, usano mezzi meccanici con cabine-comando come shuttle, aria condizionata da hotel 4 stelle, autoradio e microlevette con le quali sollevano aratri con tante fette quante una torta nuziale. Insomma, sul trattore in vacanza come a Taormina.
Negli anni 2000 spariscono le nebbie autunnali, le nevicate invernali, le piogge primaverili e gli anticicloni estivi. Con le quattro stagioni, spariscono anche le pensioni intese come assegni vitalizi e così non hanno più i soldi per andare in Sicilia né gli ex-agricoltori, né gli ex non-agricoltori. Se non sparirà anche il malgoverno del di qua, del di là e del centro, rimarranno soltanto Prurinasu, Faccisantu, Rinaldo Dragonera e i bacecchi, che se decidessero mai di sbarcare un’altra volta a Marsala, lo farebbero solo per dare un’altra volta ragione a Gelindo…
GIUGNO 2007
LA DIGA DELLE FERIE
Il 29 giugno di quell’anno non era una domenica normale. Il 29 giugno di quell’anno, oltre ad essere domenica, era la festa dei SS. Pietro e Paolo. E quel giorno, da dodici anni, era il suo giorno di riposo. Le mucche, anche quella volta, si sarebbero adattate all’evento. Come quando si era messo ai piedi le scarpe nere, quelle che luccicavano, quelle con la punta così a punta che l’alluce ci friggeva dentro, perché il figlio doveva fare la cresima. Ora, più o meno, doveva avere 25 anni, il figlio, ma le scarpe erano sempre quelle là. Erano i piedi che si erano allargati. Ma non importava. Oggi avrebbe sopportato qualsiasi pena. Prima però bisognava vedere se i pantaloni con la risvolta erano ancora in grado di contenere la leggera pancetta che la sera, in piazza mentre masticava tabacco, gli dava quel tocco da proprietario terriero che gli permetteva di poter competere nelle discussioni con i particolari del paese. Sotto il collettino della bianca camicia infilò lo stretto cravattino nero. Poi il panciotto, che era indispensabile per far passare nell’ultima asola la catenella, ben visibile e pendente a metà coscia, per dimostrare che non gli mancava certo l’orologio. Sulla giacca, corta come andava allora, la croce della grande guerra se l’era guadagnata portando sulla schiena quello che rimaneva di un compaesano, per quattro chilometri, fino alla tenda del medico, sotto la gragnola dei colpi dell’M 11 e il fazzoletto bagnato di urina sulla bocca per non soffocare nell’odore di aglio dei gas. La croce di guerra e la lettera di encomio gliel’avevano date subito, ma la pensione no. Era stato in un ufficio, in città, ma quello dello sportello parlava in una maniera che lui non aveva capito niente. Certo che non aveva più il foglio del congedo! Era bruciato insieme al portico quando il maggengo, bollendo, aveva preso fuoco. Lui, però, si era preoccupato soprattutto delle bestie, chiuse nella stalla. Era riuscito a slegarle e a portarle fuori tutte. L’assicuratore aveva garantito il risarcimento completo dei danni, se non che i lavori di ristrutturazione del tetto erano costati il triplo. Ma lui non aveva certo paura dei debiti. Lavorando 365 giorni l’anno, aveva fatto presto a recuperare i soldi per saldare la differenza. Non c’era nessuno, in paese, che poteva raccontare di essere uscito da casa sua senza essere stato pagato sino all’ultimo centesimo. Prima lavorava 365 giorni l’anno, ma negli ultimi dodici, il giorno dei SS. Pietro e Paolo faceva festa. E quell’anno la ricorrenza cadeva di domenica, come quella calda domenica di dodici anni fa. Anche allora prese la stessa bicicletta di oggi, e andò all’Orba. Lungo la strada superò tante altre biciclette che nel vederlo sopraggiungere si scansavano rispettose. Quanta gente sulla diga! La diga era la spiaggia delle ferie. Come quella spiaggia che aveva visto dalla tradotta quando ritornò dal fronte. Non c’era nessuno, però, quel giorno, in ferie sulla spiaggia. Invece, quanta gente sulla diga dodici anni fa. E suo figlio, in mezzo a tutti, il più bello di tutti, irrigidito sotto l’asciugamano. Non si può andare contro i proverbi, e anche quella volta, il 29 giugno, S. Pietro ne volle uno con sé…
Com’era trasparente l’acqua dell’Orba. E come invitava a fare i tuffi nel bucone. Nessuno, però, aveva seguito S. Pietro, in quell’ultimo caldo meriggio. L’alluvione aveva distrutto la diga e dodici anni dopo, non era più tempo di ferie all’Orba. La gente del suo paese era tutta sulla spiaggia della tradotta. Il mazzolino di fiori che gli aveva legato la moglie stava voltando l’ansa verso Retorto. Rialzò la bicicletta. Le sue ferie, anche quell’anno, erano finite.
MAGGIO 2007
SULLE ALI DELLA STESSA FARFALLA
Alle otto di sera si alzava il sipario. Il forno della stufa, che quando lo aprivi, ti regalava l’eterno profumo dei pomi cotti, invitava gli abbonati ad entrare. I piedi di mio fratello dondolavano da due gambette ancora troppo corte per arrivare a gustare quel tepore che scaldava il sentimento. Ma non aveva comunque di che lamentarsi anche lui. Stare in braccio al papà era allo stesso tempo come essere in prima fila e sul palco. Alle nostre spalle l’acqua della pentola miscelava, nel marmoreo lavandino, l’acqua del pozzo, affinché le mani della mia mamma non si congelassero nella loro funzione di lavastoviglie. Erano le otto di sera d’inverno, dunque erano scontate almeno due cose: fuori nevicava e noi avevamo già finito di cenare. Quindi lo spettacolo poteva cominciare. A grande richiesta, in cartellone: Il Conte di Montecristo nella prigione d’If. Personaggi e interpreti: Il Conte = papà; l’Abate Faria = papà; i carcerieri = papà; la prigione d’If = gli occhi e le mani di papà. Cast ristretto, ma affidabile! Le risatine del pubblico seduto erano bilanciate da strizzate di autentica paura nel sapiente dosaggio del regista e dello sceneggiatore (leggi: papà; papà). Il pubblico in piedi (la mamma) ora seguiva asciugando le scodelle…
Ritornato in Italia il Conte e scopato il pavimento, qui finiva l’atto. Una sbirciata al pubblico in piedi: stirato il grembiulino, stava inamidando colletto e fiocco… Meno male! C’era ancora tempo per un po' di cabaret. In scena: La vispa Teresa. Inutile ripetere chi faceva la parte della vispa, della farfalla e del pubblico in piedi e seduto…
Al teatro di papà e al lavaggio automatico del collo e degli arti inferiori da parte della mamma, seguiva l’Angelo di Dio, poi tutti a letto. I miei amici, a scuola, continuavano a ripetermi che facevano la stessa cosa, ma dopo Carosello. Per anni pensai che Carosello fosse il nome di una favola. Poi Enzo, che possedeva la televisione, mi svelò che era il nome di uno pelato che non usando la brillantina errava in continuazione, per cui era sempre tutto piccolo e nero, così Carmensita non lo voleva e lui continuava a ripeterle balbettando: “E mo… e mo…”. Boh! Come storia mi sembrava insulsa, ingarbugliata e senza brividi. Meglio quelle in cartellone a casa mia.
Ma, tolto il teatro, il resto era una gran noia. I miei genitori non bisticciavano mai con altre persone. Mio fratello cantava “com’è buona la minestra delle suore…” sul pullman che lo portava all’asilo e io nel cortile del prete mi prendevo in squadra i più scarsi, per far vincere qualche volta anche loro. Che barba di vita famigliare! A tavola non si parlava mai male di nessuno. Se arrivava un ospite lo si invitava a mangiare e qualche volta a dormire sul sofà nella sala. Mai un battibecco con i nostri vicini di casa e di rione. Roba da non credere. Non ne potevo più! Per fortuna i tempi sono cambiati. Adesso sì che a Fresonara, intesa come famiglia allargata, c’è da dirne a tutti. Ogni angolo di rione è buono per nuovi copioni. Le commedie si recitano in piazza dopo grandiose adunate riparatrici e il cabaret nei salotti al caldo di termosifoni e di profumi d’alta cucina. La tragedia è il metano, che aumenta quotidianamente. Piano piano si riciclano vecchi camini e nuove stufe a legna. Sta a vedere che ritorniamo di nuovo alle antiche serate di famiglia con i piedi nel forno. Sta a vedere che la nonna, il due novembre, ci fa di nuovo recitare il rosario in casa. Ci mancherebbe anche questa! La mia mamma, finiti i colletti, continua ancora adesso a stirare amitti. Per quanto riguarda me continuo a fare teatro con mia moglie, ma gli altri? Poverini! Si erano adattati così bene ad andare a dormire dopo l’Isola dei Famosi... Sarà dura ritornare a Carosello! E anche il cielo, una volta ricoperto di stelle ed ora ammantato di (porno)star, dovrà darsi una regolata…
In ogni caso, esattamente cosa vogliano dire tutte quelle sigle che evidenziano le varie ipotesi di essere famiglia oggi, non lo so. E non ho mai fatto il conto di quante possibilità ci siano, mescolando tra loro uomini, donne e similari, di formare una famiglia. Essendo povero in soldi e in intelletto, devo fare delle scelte. Non riesco a interessarmi di tutto. Così preferisco trovare una risposta adeguata ad un alunno che mi domanda se in giro c’è una quarta dimensione, piuttosto che sapere cosa ne pensano a destra e a sinistra della dimensione famiglia. Soprattutto della mia! Anzi, pregherei i parlamentari di togliere la mia famiglia dalle loro stupide casistiche e dalla percentuale dei loro interessi legati non tanto al proprio ideale, quanto all’imbottitura della propria poltrona. Li pregherei anche di non giochicchiare sul numero e sul sesso dei miei famigliari di ieri e di oggi per dimostrarmi che adesso normale è sinonimo di paleolitico. La mia antica famiglia e la mia nuova famiglia sono normali nel senso che intendo io, e siccome a me vanno tanto bene così, non mi sento per niente un australopiteco. Non voglio far parte del gùrgite vasto. Preferisco continuare ad essere una goccia d’acqua nella mia modesta Associazione. Dedita alla pastorizia, non abbandona mai nessuna pecorella. Il Sindacato al suo interno ha i suoi tempi, ma funziona benissimo. Non ci sono uffici, perciò non faccio mai code. Mi metto direttamente in comunicazione da casa. Aperto 24 ore su 24, quando chiedo mi anticipano, per dimostrarmi che già lo sapevano e già stavano provvedendo… Io non lo credevo. Così un giorno il Presidente mi ha fatto mettere le dita sulle iniziali incise nella corteccia del pino. Scoprii la continuazione della storia del Conte di Montecristo. Entrate in casa che ve la racconto. Sparita la grossa stufa bianca, al suo posto c’è un camino che mangia tanta legna come un dinosauro. Sedetevi al suo fuoco: vedrete aprirsi l’antico sipario e potrete godere della scena in cui Edmond Dantès, dopo la fuga, sposa la Principessa che raccoglieva fiori. Sullo sfondo il sorriso dell’abate Faria, che spiega alla vispa Teresa come sulle ali della stessa farfalla possano volare, in una famiglia, amore, sincerità, realtà e fantasia. Senza le sigle. E senza inutili caroselli…
APRILE 2007
IL MIRACOLO TURISTICO
Puntuale all’ora fissata il pullman svolta, con qualche leggera difficoltà, a sinistra, nella stradina che porta al grande parcheggio. Il barista fa cenno alla moglie che sono arrivati… La prima a scendere è la maestra anziana. È la volta poi di un grappolo di ragazzini e ragazzine che a vederli sono di quarta o di quinta elementare. Chiudono la fila le urla della maestra più giovane, la quale appena scesa minaccia note per tutti fin che ce ne staranno sul diario. Ad attendere quel manipolo chiassoso è la guida, vale a dire il solito maestro da paese che per nove mesi non fa niente e ne ha addirittura tre di vacanza. Ogni gita scolastica, o - per dirla come da circolare del Direttore - viaggio d’istruzione, prevede alcuni momenti superlativamente pedagogici dai quali non si può prescindere. Per cui, prima di tutto, appena si scende dal pullman, come un dogmatico obiettivo del P.O.F., bisogna andare ai servizi! Poi, svuotata la vescica, bisogna didatticamente riempire la pancia. Ecco il motivo dei tramezzini e dei succhi già pronti sui tavolini del bar. E il pomposo viaggio d’istruzione potrebbe concludersi qua che già tutti sarebbero contenti. Se non fosse che il tour preveda la noiosa visita, a piedi, per giunta, della cappella campestre all’entrata del paese. Un vero martirio! Ma del resto anche il santo cui è dedicata, fu martire. E non si lamentò così tanto. Il crocefisso è quello che una volta era al posto dell’attuale nella chiesa parrocchiale, ma ciò poco importa ai pargoletti, che smettono di scambiarsi figurine solo alla storia del brigante che un tempo si nascondeva sotto il distrutto porticato per rubare le doppie ai progenitori della Panini…
Attraverso strani tappeti verdi che la guida dice chiamarsi prati, si raggiunge il laboratorio di un sorridente ed ironico pittore-scultore, il quale, distribuiti dei fogli bianchi, fa mettere in pratica ai discepoli-artisti in erba e sporchi della stessa causa i prati di cui sopra, la teoria dei colori, secondo la quale mescolandone due se ne ottiene un terzo senza spendere una lira. Allo stesso prezzo se ne può ottenere un quarto, un quinto… e un sesto col quale dare una bella pennellata sul naso a quella civetta di quinta che se non fosse una bambina sarebbe più antipatica della mamma!
È tempo di tornare al pullman che, avvisato, sta aspettando ora sul piazzale del quale la guida - cioè il maestro ecc…ecc… - spiega, soprattutto alle due colleghe, non trattarsi del Kennedy Space Center della NASA. Quei bolidi cilindrici con la punta a cono non sono shuttle, ma silos dove si fa essiccare uno strano seme giallo col quale oggi si mescola di tutto tranne che la polenta.
Mangiare al sacco ai tavoli del campo sportivo, dove il barista offre ogni ben di Dio in fatto di gelati, patatine e bibite, è niente di fronte all’incanto di poter correre, rotolarsi e dare calci ad una palla. La quale, a sua volta, rotola dentro un recinto somigliante a quello davanti cui le urla e le imprecazioni del padre sono prepagate da una scheda inserita in un coso che sta sotto la televisione. Il clacson di una specie di locomotiva con vagone scoperto al seguito, che il contadino sul trattore chiama rimorchio, avvisa la fine dello sbracamento. Adempiuto al didattico rito della pipì, si è pronti per salire nel bosco di Montecaprato a piantare il frassino, simbolo (forse) di quel luogo, cingendolo con un collarino su cui la maestra giovane tenta di dare un contegno al trasverso elenco dei nomi della scolastica banda. Poi, via…. per un divertente, quanto unico nella vita, giro in vagone-rimorchio. Spiegato perché la diga si chiama di Remotti, il maestro dimostra, facendo alzare dai neo-acquaioli gli incastri e percorrendo un breve tratto del Bedale sino a trovare un altro incastro dal quale l’acqua esce dal suddetto canale per spandersi in un tappeto verde, che se gli Egizi erano un grande popolo, anche i nativi del luogo non sono dei deficienti. Anzi, tanto per ribadire il concetto, niente di meglio che costeggiare il torrente e raggiungere l’altro sbarramento. I cubi di cemento, dei quali la maestra anziana chiede inutilmente a quelli di quinta di trovarne il volume, non sono un gran che come paesaggio naturale, ma dopo l’alluvione del 1977, della quale il maestro fu diretto testimone, non si trovò di meglio per tenere incanalato il torrentello quando si monta la testa e vuol fare il Nilo (vedi racconto di marzo). Trasferimento d’obbligo ora alla cascina, dove l’essere pennuto che cammina a passo d’oca non è una esse esse tedesca vestita da Renato Zero, ma un appartenente all’esercito degli uccelli appellato gallus gallus. Scoperta la differenza tra la mietitrebbia e il vitellino per via della coda, capito che la stalla è una casa senza televisione e che i fagioli non nascono già inscatolati, si passa dalla Via delle Spine per arrivare, sempre in treno-rimorchio, sotto il castello. Scattate le foto di rito, tirando pari e dispari ci si divide in assalitori e assaliti. E mentre i primi si accorgono che salire il vallum senza ascensore è un’esperienza peggiore della verifica di matematica, i secondi, dal muretto, si divertono un mondo a gettare bombe di carta - preparate dalla moglie del maestro - sulla testa degli invasori, i quali, presi da spasmi tonici, alzano bandiera bianca. Ristabilite le amicizie, un portoncino laterale della chiesa parrocchiale si apre per una breve visita interna. E qui avviene il miracolo! Un bambino punta il dito sul crocefisso ed esclama: “Quello che è stato messo al posto di quello che adesso è nella chiesa del brigante!”. Le parole saranno confuse, ma il concetto è chiaro! Dunque non è vero che quando uno spiega i bambini giocano soltanto a scambiarsi figurine. Il maestro si illumina d’immenso e sviene. Rinviene in Piazza don Orione, dove, evacuate le ultime gocce del giallo liquido, gli alunni, già seduti ai posti assegnati dalla maestra più giovane, salutano, dai finestrini del pullman che gira a destra, un paese in cui gli abitanti aspettano sempre che il miracolo lo faccia qualcun altro. Al maestro, nell’estrarre di tasca il fazzoletto per asciugarsi una lacrima, cade per terra la figurina di Del Piero…
MARZO 2007
DICIOTTO VOLTE FRESONARA
La posizione era evidentemente adatta. Le ripae sarebbero state una barriera naturale contro gli eventuali attacchi delle bellicose tribù dei Liguri, i quali, dal punto di vista del loro avvocato, di quei rivoni ne avrebbero dovuto godere almeno il diritto di servitù, giacché ci passavano da secoli. Dall’alto, l’Orba, che in quella stagione fluiva lenta, non avrebbe fatto paura nei piovosi autunni, quando, sposate sulla destra le acque del Lemme, da ex-donzella si esaltava come un dragone in battaglia e dandosi arie faraoniche si trasformava in un Nilo selvoso. L’autostrada consolare che dalla Liguria si perdeva, dopo il casello di Tortona, in rettilineo percorso nelle piane padane, scorreva a due miglia. Un avamposto a pochi stadi di distanza avrebbe garantito ai TIRi a due e quattro cavalli, l’intervento immediato della Polstrada in caso di prepotenze da parte dei pirati della Levata. Il bosco di frassini e di fresie con fatica avrebbe lasciato spazio ai campi coltivati per dar modo alle 300 famiglie della colonia romana di assoggettarsi al motto latino: parva gens, mala terra. L’aria, comunque, era buona, le anitre non mancavano e di acqua ce n’era da vendere. Fu conferito l’incarico a Freso, capo comitiva, di tracciare con l’aratro il solcus primigenius che avrebbe delimitato i confini delle mura. Abbattute le capanne degli Statielli, sul cardo sarebbero sorte insulae con vere case di legno e in muratura…
Visto? Basta mescolare termini moderni ad antiche parole, per comprendere come la solfa, nei millenni, sia sempre la stessa: in un posto ci abita qualcuno e un bel giorno qualcun altro decide di metter su casa a tutti i costi proprio in quel posto là. Caccia via gli indigeni per non dover cedere diritti di usucapione e poi arreda l’ambiente in base alla propria visione della vita: star bene e diventare ricco. Che poi era la stessa visione del popolo precedente. Ma vista da un’altra prospettiva. Come quando ti soffi il naso in politica: c’è chi vuole che te lo soffi con la destra e chi vuole che te lo soffi con la sinistra…
Immaginate i titoli del telegiornale della vespera. Sigla. Voce fuori campo: - L’esercito romano invade Silvam Orbae. Dure resistenze da parte dei Liguri Statielli. Il Governo chiede il voto di fiducia al Parlamento sull’intervento a difesa degli oppressi stando però dalla parte degli oppressori. In crisi l’Unità di Crisi: non riesce a ritrovare un giornalista disperso in Montecaprato.
Povera Fresonara, che brutti momenti durante i suoi misteriosi albori! Sballottata nondimeno qua e là anche in tempo di guelfi e ghibellini; donata al convento del SS. Salvatore; venduta (con Basaluzzo) per l’esorbitante cifra che oggi è pari ad attuali 1,45 €, pur essendo in Piemonte era considerata pavese, così si beccava gli assalti di Alessandrini e Monferrini. Nel concitato incrociare di spade ed eventi perde la sua lucidità e a chi le chiedeva come si nominasse, confusa cambia almeno diciotto volte versione. Sino a quando un certo Facino, arrabbiato come un Cane, la rade al suolo. Pari all’araba fenice, risorge dalle sue ceneri e decide di chiamarsi definitivamente Farsnera. Tutto fila liscio per 600 anni. Cioè sino al giorno in cui scopre che si dice Farsnera, ma si scrive Fërsnèra. Interviene la Provincia, la quale, invece di risolvere il problema, la boicotta ulteriormente, dando d’intendere ai pellegrini provenienti da San Glicerio che, per raggiungere la chiesa parrocchiale, dovranno passare dal cortile del Palazzo Trotti! Il disguido nasce a causa dei discendenti di questa antica nobile famiglia, i quali, divenuti Signori del paese (titolo che vantano ancor oggi), decidono di ricostruire, sulle rovine dell’antico castello, il palazzo omonimo. Però dall’altra parte della chiesa. E della Provincia. Cavaliere più, dama meno, attualmente in questo depistato angolo del globo terracqueo, posto ad una quota media di 143 m sul livello del mare, vivono circa 720 naufraghi. Il problema è che una volta erano tutti Liguri, poi tutti Romani, poi tutti Bacecchi. Adesso, con queste prenotazioni last minute, non si capisce più da dove vengano le centinaia di campeggiatori che, avendo scelto la ridente località sui cataloghi delle agenzie, hanno scambiato Fresonara per un residence, per cui usano il paese soltanto per mangiare, bere e dormire. In ogni caso, sommato l’antico al nuovo e poi diviso il totale per la superficie di 694 ha, risulta che la nostra densità è di 104 viventi per kmq. Dei quali viventi, intesi come esseri umani, dall’Acquanera alle dighe dell’Orba è rarissimo trovarne qualcuno a piedi lungo il cardo maximus. La desertica situazione provoca un’ulteriore confusione, tanto che non risultando nel Monferrato, meno ancora nelle Langhe, troppo in basso per essere in Appennino, troppo a sinistra per essere ancora in Pianura Padana, diventa un rompicapo per il maestro quando un alunno gli chiede se, dopo essere nato sotto il cavolo, gli fosse almeno possibile sapere in quale cavolo di paese vivesse.
-Facilissimo! - rispondono i due di terza. Basta orientarsi con la latitudine: 44° 47’ 1” Nord, e la longitudine: 8° 41’ 14” Est. Compasso e righello alla mano, le coordinate li hanno portati esattamente in quei rivoni di cui quelli di quarta e quinta non hanno l’usucapione, perché non ci giocano mai. Così si sono immusoniti, soprattutto perché i Liguri si sono estinti e siccome la riforma ha dimenticato le invasioni barbariche, di quel popolo non si hanno più notizie. Che grana! Ma per me la grana più grossa è l’1” della latitudine. Infatti, dopo aver impiegato tutta la vita per (ri)trovare Fresonara, quando l’ho trovata mi sono girato un secondo e… mi è di nuovo sparita. Col risultato che i bacecchi non posso nemmeno mandarli a quel paese. A Fresonara sono già a quel paese…
FEBBRAIO 2007
LA VALIGIA DELLE GRANDI IMPRESE
La valigia aveva da sola almeno tanti anni come noi due messi insieme. Incisi col coltellino riportava i nomi di chi aveva avuto la nostra età tre decenni prima. Come facesse Rino a sapere che Don Contardi teneva in qualche ripostiglio quella reliquia, era talmente ininfluente, rispetto all’evento che da lì a meno di un’ora avrei vissuto, che non mi venne certamente voglia di chiedergli spiegazioni. L’importante era che lui lo sapesse, che fosse andato personalmente a chiederla, che il parroco gliel’avesse affidata dietro chissà quante raccomandazioni e che ora, quella sacra valigia di finto cuoio rossiccio, fosse nelle nostre mani. Rino ed io non avevamo certo bisogno di andare a casa a cambiarci. Bambini di strada, avevamo imparato presto dai più grandi a precedere gli eventi, per cui già calzavamo le scarpe adatte alla grande occasione. Lo stesso valeva per Enzo e Gianni. Ma alcuni avevano ancora bisogno che la mamma li accudisse, per cui, in fibrillazione, li aspettammo dal monumento. Appena Enrico, Giancarlino e gli altri spuntarono dalla curva di Penovi, inforcammo le biciclette alla stessa maniera in cui Pecos Bill montava in sella. Del resto anche la mia bicicletta si chiamava Turbine, come il cavallo dell’eroe col lazo. Metaforizzati il manubrio in redini e i pedali in staffe, non c’era nessuna differenza tra i due termini di paragone. La diversità, nel paragone, era piuttosto tra noi, quelli buoni, e gli altri. Dove il primo termine stava ad indicare quelli che quando si tirava pari o dispari, erano fonte di contese accesissime, mentre del secondo facevano parte coloro che, colpa una madre natura non troppo benigna, erano relegati in porta o al massimo messi al confino come terzini sulle ali. Vale a dire i lati nord - sud del cortile della canonica, in cui da una parte si prendevano ginocchiate contro il muro della chiesa e dall’altra gli eserciti incastravano le proprie scarpe nei buchi della rete metallica durante massacranti corpo a corpo in cui chi colpiva accidentalmente il pallone si vergognava poi per tutta la partita.
Ma oggi, altro che cortile del parroco! Oggi, finalmente sarebbe stato testimone delle nostre eroiche imprese un vero stadio. Erba ce n’era meno che all’oratorio, ma con quei rialzi tutt’intorno su tre lati, lo sferisterio davanti alle scuole di Basaluzzo era Wembley. Cosa importava poi che quella spianata fosse in realtà un campo da tamburello! Quel giorno si sarebbe svolta la prima vera partita della nostra storia. Rino aprì la valigia nel silenzio assoluto. A 14 anni era già un uomo e un leader. Le sue decisioni non avevano appello. Soltanto io potevo avere il diritto di avanzare richieste, perché di me aveva il rispetto che si doveva a chi, pur essendo più piccolo, palleggiava meglio di tutti. Mentre quelli di Basaluzzo sistemavano le porte conficcando nella nuda terra quattro rami strappati dagli alberi che dividevano il campo dalla strada, decidemmo la formazione con gli stessi criteri di cui sopra: quelli buoni e gli altri.
Stabilito meticolosamente dove con grande precisione si dovesse immaginare fosse il dischetto di centrocampo, lì fu posato il bitorzoluto pallone che con la terra ne condivideva il colore e con un uovo la forma. Qualcuno non ben identificato fischiò l’inizio e col primo calcio dato ad una pietra invece che a quello strano involucro di cuoio, iniziò il derby Basaluzzo - Fresonara. Il primo derby dell’età moderna. L’ultimo incontro se lo ricordavano soltanto più i vecchi ultras, i quali, in entrambi i paesi, giuravano tutti su discordanti quanto improbabili esiti. I dati statistici riportavano almeno otto risultati diversi. Ma passarono pochi minuti che anche lì il risultato cambiò. Uno della mia squadra, di cui taccio il nome per non intaccarne il prestigio, diede una tremenda scarpata di punta all’uovo, pardon, al pallone, il quale, colpito a morte dallo strano effetto, incominciò a volteggiare senza vita nello spazio seguendo una traiettoria di cui soltanto i tecnici della N.A.S.A. avrebbero potuto calcolarne lo sviluppo. I tecnici della N.A.S.A. e quel piccolo e magro numero 8 che a capire quelle spirali aeree c’era abituato da anni. Quando si dice l’affiatamento… Bastò lasciarselo cadere sulla testa, quel pallone, per fargli superare la riga tracciata col tacco per l’uno a zero a nostro favore, sotto gli occhi increduli del portiere uscito a vuoto. Avevo segnato il mio primo, vero goal. Quei pochi altri goal che riuscii a segnare dai 12 ai 33 anni li rivivo raramente e in stato confusionale, ma questo no, questo lo potrei disegnare ancora oggi fotogramma per fotogramma. Non la presero bene, i basaluzzesi, i quali, favoriti dall’arbitro, dal polverone e dagli incitamenti di un manipolo di ragazzine, ce ne infilarono tre di fila. E fu subito dopo il terzo goal, a un quarto d’ora dalla fine, che gli altri decisero di autoespellersi e di andarsene a casa. Una silenziosa alzata di spalla fu la risposta al nostro sbalordimento. Ricacciammo in gola le urla di giubilo anticipato degli avversari. Noi, quelli buoni, non ci ritiravamo. La partita sarebbe andata avanti sino alla fine del tempo regolamentare. Rino si mise in porta. Portiere volante, con licenza di andare a fare goal mentre io gli proteggevo le spalle. Ne fece due di goal, Rino, per un tre a tre finale che mandò in frustrazione il morale dei tavarnogni per tutta l’estate.
Ripiegammo quelle magliette tarlate, così stinte da aver ridotto in rosa pallido il colore granata originario, con la stessa cura con cui le nostre mamme mettevano via la camicia della festa. Le riponemmo ad una ad una nella valigia di finto cuoio rossiccio. Erano le gloriose maglie che i bacecchi indossavano nei derby trent’anni prima. Adesso erano sporche di terra e bagnate della stessa volontà di non mollare mai. Domani le avremmo lavate e ridate al parroco. Ma per una sera l’onore della nostra impresa doveva stare nella valigia insieme alle leggendarie imprese di cui sentivamo parlare con la profonda nostalgia di chi le aveva vissute.
DICEMBRE 2006
QUANDO PER ANDARE A BETLEMME SI PASSAVA DA FRESONARA
Il momento non era certo quello più indicato per sentir bussare alla porta. In quella stagione le galline andavano a dormire alle quattro e mezzo, e nella stalla, a vedere il livello del petrolio rimasto, potevano già essere anche le nove passate… Dunque, chi si permetteva di bussare a quell’ora? O era la solita banda di malansgnäi che girava per il paese a giocare scherzi, o era successo qualche cosa!
Prima di aprire usava chiedere chi fosse, e comunque, per ogni evenienza, era meglio tenere a portata di mano la forca. Non per usarla davvero, ma almeno sarebbe stato un deterrente per ulteriori canzonature. Alla domanda dall’interno, la voce di fuori rispose con tono supplichevole. La parlata non era fresonarese, nemmeno l’aveva mai sentita nelle fiere dei dintorni. Entrambe le cose indussero il padrone della stalla a togliere, per curiosità, il pesante gancio dal fermo. Il fioco taglio di luce che attraversò la soglia illuminò un viso che non era di quelle parti. E anche le scarpe, con quei colori che in paese calzavano solo le ragazze al ballo della leva, saranno state da ricchi, ma certo non adatte, come i socrogni, a superare le cavalle di neve senza bagnarsi i piedi. Per non parlare della sciarpona ricamata, annodata alta a riparare la testa e della lunga mantellina, che luccicava allo strano chiarore di quella notte. Più a gesti che a parole, il malcapitato fece comprendere l’urgenza della sua richiesta. Del resto, spoglie le acacie delle loro foglie, dal cortile si poteva intuire che nella direzione indicata dall’uomo c’era uno strano movimento. Le voci concitate arrivavano sin lì e il chiarore delle lanterne che galleggiavano nell’aria come lucciole di luglio, facevano presagire che le mani che le reggevano avevano fretta di risolvere la faccenda al più presto. Il contadino, battendosi con le dita il petto, fece capire al forestiero che ci avrebbe pensato lui! Mentre la moglie fu incaricata di andare a svegliare il vicino, affinché provvedesse a scendere al posto indicato col bue più grosso, slegò due vacche, pose al collo il giogo e presa la corda sopra il gripione, si avviò a passo veloce giù dalla cròsia. La neve non era ancora ghiacciata e i passi dei due uomini e dei due animali erano attutiti dal soffice mantello. Sul luogo del disastro, come direbbero adesso alla tv, bastarono alcuni secondi per capire che, nonostante la buona volontà di quegli strampalati servitori che tiravano da tutte le parti e gli incitamenti di due granduglioni vestiti come chi era venuto a chiedere aiuto, non avrebbero cavato un pesce dall’acqua. Per fortuna quello con l’itterizia, che sembrava il più disperato, capiva qualche parola in dialetto e così comprese che era meglio stare fermi, aspettare il vicino col bue e lasciare la sovrintendenza dei lavori a chi era certamente più esperto di loro a risolvere quei casi. Ci volevano animali forti, dalle zampe robuste e dalla schiena larga, non quelli lì, con la scoliosi, che stavano usando i servi. Difatti, legato il bue davanti, le due vacche dietro, bastò gridare tre volte: “Va ‘nen, Biònd … tura; tura… Niseura, doma…” che l’incidente fu risolto…
Non vollero essere pagati, i due contadini. E dire che in quella saccoccia c’era tanto denaro da comprare i Quarti e la Macaria! Essere poveri faceva l’occhiolino alla bella sensazione di far parte di questo mondo. Bisognava studiare da ricchi, per essere ricchi, e i nostri, dopo la terza elementare, avevano abbandonato il lapis. La circonferenza delle mani era già abbastanza larga per attorcigliarsi al manico della zappa e le carasse da piantare erano quelle vere, quelle dritte della vigna, non quelle svirgole sul quaderno. Non disdegnarono, invece, il bottiglione a testa di un vino senza etichetta, che a loro parere non faceva certo meno di tredici gradi e mezzo. Quello sì sarebbe venuto bene per riscaldarsi rimesse le bestie al loro posto e avere ad esse chiesto scusa per lo straordinario, al quale certo non erano abituate in quella stagione e ancor più sotto l’incandescenza di un bagliore in cielo che aveva la coda come il gallo.
Io non c’ero quella notte in cui mio nonno e il suo vicino di casa andarono in aiuto dei tre Re Magi, i quali, guardando per aria la stella che li guidava, non si accorsero che in basso la strada curvava a destra proprio sul ponte del Bedale. Le mucche di mio nonno conoscevano la strada a memoria, ma quei salami dei cammelli, abituati a girare nel largo del deserto, appena la strada si strinse di due palmi, punfete! scivolarono nell’acqua portandosi dietro il carro del Magio giallo. Succede! Per risorgere bisogna essere talmente umili da cadere.
Vivo adesso, però, e vedo molti uomini che mirano in alto, si innamorano di se stessi e non si accorgono che è arrivato il momento di svoltare in giù.
I buoi si sono estinti, i contadini vivono in lussuose villette, i Re Magi viaggiano in automobile ed io per raccontarvela, non sono di nuovo stato negli spazi consentiti. Che brutti momenti per le favole di Natale. Auguri! Buon Anno e… guardiamo dove mettiamo i piedi!
NOVEMBRE 2006
AL SERVIZIO DELLA COSCIENZA CIVICA
Infilò la mano nell’acqua. Aveva provato prima con un piccolo bastone. Poi con un ferretto ad uncino. Niente da fare. Il morbido e delicato oggetto non voleva saperne di districarsi da quella fastidiosa trappola ad “esse” dell’ansa del condotto. Non c’erano guanti in giro, per cui si fasciò la mano con un sacchetto recuperato nel vano della caldaia. Infilò la mano nell’acqua. Sentì il freddo del liquido superare la barriera della plastica e raggiungere le falangi. Agganciò l’oggetto con la punta del pollice e dell’indice. Tirò, e l’oggetto, appena fuori dal diafano liquido, si incollò mollemente sul dorso della mano. Era uno di quelli che la pubblicità dichiarava sottile quasi alla trasparenza, leggero come una piuma. Alla svelta, quasi a liberarsene senza respirare e senza venirne a contatto più dello strettissimo indispensabile, lo lasciò adagiare in un contenitore di un bel blu marino. Sventolò verso il basso la mano ricoperta dal lacrimante sacchetto di plastica sino a quando quest’ultimo si allargò pian piano per via della forza centrifuga. Non avendo più alcun ancoraggio con l’arto e causa la sopravvenuta forza di gravità, scivolò con silenziosa pacatezza nello stesso contenitore di cui sopra. Salvato e salvatore erano lì, abbracciati nell’abisso di quel blu marino illuminato dalla luce di un artificiale sole allungato a tubo, entrambi fradici ed esausti.
Tirò un sospiro di sollievo. Era felice. Convenne con se stesso che quel bagno di umiltà, seppure per il momento limitato alla sola mano destra, gli avesse fatto bene e si sentì addosso la voglia di continuare negli altri lavori. Liberata la mente da quel servile problema, poteva occupare la stessa ad altre dimesse ed oscure risoluzioni.
In casa del regista, nonché autore di commedie teatrali, poesie, racconti umoristici e quant’altro vi possa venire in mente si possa scrivere, il telefono suonava a ripetizione come un vecchio long playing. Fra tre giorni avrebbe esordito con la sua nuova pièce nell’appena ristrutturato Teatro Comunale. Alla moglie, scenografa e costumista in fibrillazione, era dato il compito di ricevere, rispondere e possibilmente non smistare a lui le noiose voci dall’altra parte di quella gracchiante cornetta del telefono a muro. Il telefono nuovo, quello con il fax, serviva a lui per inviare alle redazioni dei giornali copia della locandina. Non si fidava dei pubblicisti. - Scrivono qualunque cosa – diceva, per cui, allegata alla locandina, inviava anche un testo tanto da saperne ricavare un articolo decente, sperando, comunque, che lo copiassero più integralmente possibile. Con ormai l’alterazione della contrattilità degli organi a struttura muscolare in stato di patologica irreversibilità, alla telefonata delle 17:30 la moglie non fu in grado di opporre un buon filtro, per cui egli dovette, in falsetto tipico da regista seccato, rispondere con elegante cordialità ad un certo non so chi… che gli richiedeva la gentilezza di affabulare su alcune domande per un servizio a tutta pagina riguardo la coscienza civica dei Fresonaresi.
La coscienza civica dei Fresonaresi? Non gli mancarono certo esperienza e astuzia per capovolgere l’argomento come su una montagna russa e trovare il binario giusto per parlare di sé. Avrebbe snidato la stessa soluzione anche se gli avessero chiesto di dissertare sulla coscienza civica dei marinai ammutinati del Bounty. La nave non era forse di legno? E lo erano anche le assi del palco… per cui il tutto si poteva pur sempre ricondurre alla sua attività di regista affermato, nonché ecc…ecc… possa venire in mente.
Certo, a completezza della trattazione, non dimenticò di confermare il suo impegno affinché i testi teatrali, per altro regolarmente tutelati dalla SIAE, fossero rispondenti ai valori moderni della massima correttezza. E pur trattandosi di commedie, era fuori discussione il suo senso di responsabilità morale e civile. La stessa poesia-monologo Una democratica idiozia era stata creata dalla sua vulcanica mente quale paradosso atto a stimolare le pigri coscienze degli altri.
Il teatro fresonarese, secondo la sua autorevole opinione, doveva essere la casa di tutti. Al pari della chiesa. Là si prega, qui si ride. Ma in entrambi i luoghi lo spirito si eleva. Che finezza nelle sue battute! Per paura che all’interlocutore sfuggisse, rimarcò due volte la similitudine, ricalcando la protasi sulla battuta (di spirito) e l’apodosi sull’essere incorporeo della teologia cristiana. Era veramente un grande! E come tutti coloro che lodandosi si sbrodolano, risultò immediatamente antipatico a quel non so chi che era all’altro capo del filo. Il quale, nella sua profonda capacità di capire subito il carattere di una persona, dopo tre minuti abbandonò la comunicazione, perdendo così l’occasione di rendersi conto che il sontuoso regista ecc… ecc… non era altri che la stessa persona che aveva messo la mano destra dentro il water dei gabinetti del teatro per togliere quel dannato assorbente che si era incastrato nel sifone…
Come fanno presto, iattanza e modestia a darsi sottobraccio. E come la coscienza civica sia così farfallina che muta ogni secondo la sua improbabile rotta.
I vecchi gabinetti sulla strada sono stati eliminati, dei pubblicisti non ci si può fidare, dall’altro capo del telefono ci sono degli incompetenti e però le donne continuano ad avere i loro antichi problemi… Che brutti momenti per la coscienza civica dei registi teatrali!
OTTOBRE 2006
COMINCIAVA PRESTO IL VOLONTARIATO A FRESONARA
L’inverno era freddo quell’anno, e coperto di neve. Rino ed io trasportavamo, a piedi, ciò che Don Contardi ci aveva ordinato di prendere. La percorremmo almeno venti volte quella strada, vermigli di sudore nonostante il gelo, sedendoci ogni tanto perché le braccia non si staccassero dal corpo, su una delle quattro sedie che a testa traslocavamo dalla parrocchia al teatrino della Società Mutuo Soccorso. Erano le sedie impagliate, quelle a destra entrando in chiesa, che nelle solennità il sacrista distribuiva alle donne in cambio di dieci lire d’elemosina. Rino ed io, in qualità di volontari bambini, non avevamo grandi impegni nella vita, se non quello di giocare a calcio, a barchera e a ràido negli intervalli tra la messa prima, quella in S. Rocco, quella grande e il Vespro di pomeriggio. Si univano, fissi: la settimana, i rosari, le Quarantore, le Rogazioni, le novene, la distribuzione degli ulivi, la benedizione delle case, il mese mariano, il catechismo e tutte le feste di precetto. A ruota seguivano le variabili: battesimi, matrimoni, funerali e come extra tre mesi estivi di prove. Sì, perché noi, al Concorso dei chierichetti a Tortona, il 4 ottobre, andavamo per vincere!
Ah! Dimenticavo la scuola: tutti giorni, mattino e pomeriggio, con relativi compiti e lezioni a casa. Tolte queste minuzie, il resto era gioco, compreso quello di fare venti volte, in un nuvoloso pomeriggio di dicembre e a piedi, i 500 metri in leggera salita, che dividevano la chiesa dalla Società, sepolti da quattro sedie. Ma era bello, durante la fatica, pregustare il ritorno, di corsa, di quel mezzo chilometro, stavolta però in discesa libera scivolando sul ghiaccio. E già, a cosa serve oggi desiderare la neve se poi si sta tutto il giorno in casa con in mano una play-station?
Noi, in mano, d’inverno, avevamo sempre un grumo di neve. Era il simbolo della nostra libertà di scegliere tra la pace e la guerra. Pressato leggermente era lo stick più buono del mondo. Pressato con più forza era la granata preferita per l’attacco alla nuca del nemico, con la fervida speranza che, all’esplosione, le schegge ghiacciate scendessero a rabbrividirne la schiena. Con una pietra dentro, la bomba era perfetta per mandare in frantumi un vetro o un lampione. Ubbidire al parroco era una soddisfazione per lo spirito e per il corpo, due cose che per noi bambini erano un tutt’uno. Al piacere di sentirci volontari non era certamente disgiunto un piacere calcolato. E calcolando che Don Contardi non ci avrebbe dato meno di una caramella per sedia e cinque lire per viaggio, il volontariato ci avrebbe comunque garantito, a sera, una panciata di dolci e denaro contante per una settimana...
Anche l’anno dopo l’inverno fu freddo e coperto di neve. Nevicava sempre negli inverni di una volta. E noi bambini avevamo sempre quel grumo di neve in mano e le tre scelte in testa. Ma non c’era più niente da portare alla Società. Chi ci avrebbe dato una caramella per sedia e cinque lire per viaggio, se n’era andato al tramonto. Mentre moriva il giorno, moriva in chiesa Don Contardi.
In quella chiesa che ci aveva insegnato a frequentare negli intervalli tra un gioco e l’altro, nessuno rimosse più quelle sedie di paglia. Poi se ne andarono, a turno, l’antico sacrista, le donne con l’elemosina, i cantori del Vespro.
Se ne sono andati in tanti, dal giorno in cui Rino ed io portavamo le sedie dalla chiesa alla Società, perché il sabato si sarebbe recitato quell’ultimo Gelindo in cui lui avrebbe fatto la parte di Narciso ed io, spettatore, mi sarei guadagnato l’entrata gratis, sempre per via dei venti viaggi. L’ultimo Gelindo, perché i tempi stavano cambiando. Non c’era più spazio per pastori e Magi. E a noi che non capivamo, il destino, intanto, poco per volta, ci portava via, dopo il regista, anche i volontari della devota commedia: Barba Medoro, Tirsi, San Giuseppe. Si è portato via anche Narciso, che metà di quelle caramelle le aveva regalate a me, perché a lui piaceva di più mangiare il pane. Così. Senza niente nel mezzo.
Ora non esistono più i piccoli lavoratori. Piscina, calcio, danza, musica… Non è più tempo di sedie di paglia. E gli altri, quelli più alti, si sono politicizzati. Loro, più che alle sedie, mirano alle poltrone…
La neve non si può più mangiare, le vetrine sono di cristallo infrangibile, gli spartineve tolgono il ghiaccio e le caramelle si impiastricciano nel lavoro del dentista. Che brutti momenti per i volontari moderni!
Data e Ora
Fresonara:
Latitudine: 44.78421669999999
Longitudine: 8.687705199999982
FRESONARA
RA VOS DIR BACËCH
TEATRO COMUNALE
COMPAGNIE TEATRALI
DOMENICO BISIO
ELISABETTA SIRI
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